15. Trattato di pace. I Cartaginesi, dopo aver crocifisso il loro sventurato comandante – il che non cambiò per nulla le cose – mandarono al duce siciliano i pieni poteri per far la pace.
Amilcare, vedendo frustrate dagli ultimi errori le sue fatiche di sette anni, fu d'animo abbastanza grande per non sacrificare il suo onore militare, e per non abbandonare il suo popolo ed i suoi disegni.
La Sicilia non poteva più tenersi perchè i Romani erano padroni del mare; nè Amilcare poteva sperare che il governo cartaginese, il quale aveva tentato invano di raccogliere denaro in Egitto per ricostituire l'erario, volesse tentare un'altra volta la fortuna per vincere la flotta dei Romani.
Egli cedette quindi la Sicilia ai Romani. Fu però riconosciuta esplicitamente, nella consueta forma, l'indipendenza e l'integrità del territorio cartaginese, giacchè Roma si obbligò di non fare trattati separati coi federati di Cartagine, come Cartagine si era obbligata di non farli coi federati di Roma, cioè con i rispettivi comuni soggetti e dipendenti, e nel tempo stesso di non guerreggiare nè esercitare in questo territorio diritti di sovranità, o di levar soldati nei territori federali della città rivale[4].
Quanto alle condizioni secondarie erano, come ben si comprende, la gratuita restituzione dei prigionieri romani ed il pagamento di una contribuzione di guerra; fu però risolutamente respinta la pretesa, messa innanzi da Catulo, che Amilcare consegnasse le armi e i disertori romani.
Catulo rinunziò a questa pretesa e concesse ai Fenici la libera partenza dalla Sicilia contro la modica taglia del riscatto di 18 danari (L. 15) per testa.
Se i Cartaginesi non desideravano di continuare la guerra, essi potevano essere contenti di queste condizioni. Quanto al generale romano, può darsi che il naturale desiderio di apportare alla patria insieme col trionfo la pace, il ricordo del caso di Regolo e della mutabile fortuna della guerra, la considerazione che lo slancio patriottico, di cui quella vittoria era frutto, non si poteva nè imporre, nè facilmente ottenerne la ripetizione, e fors'anche la personalità di Amilcare, concorsero a farlo pieghevole e condiscendente.
È certo che a Roma i preliminari della pace non furono bene accolti e l'assemblea del popolo, che probabilmente era sotto l'influenza dei patriotti che avevano promosso l'allestimento dell'ultima flotta, si rifiutò sulle prime di ratificarli.
Noi non conosciamo la causa precisa del rifiuto e non sappiamo quindi se gli oppositori volessero con ciò obbligare il nemico a maggiori concessioni, o perchè, ricordandosi che Regolo aveva domandato a Cartagine la rinunzia alla sua indipendenza politica, fossero decisi a continuare la guerra fino a conseguire quest'intento.
Se il rifiuto fu un artifizio per ottenere più larghe concessioni, esso era, probabilmente, un errore, poichè di fronte all'acquisto della Sicilia ogni altra concessione aveva poca importanza, nè si poteva, senza correre gran rischio, giuocare, per qualche utile secondario, tutto il guadagno principale, specialmente avendo da fare con un uomo risoluto e pieno di risorse quale era Amilcare. Se poi il partito che osteggiava la pace vedeva nella completa distruzione politica di Cartagine la sola ed unica fine della lotta che convenisse alla repubblica romana, esso dava con ciò prova del suo avvedimento politico e mostrava d'avere il pieno presentimento dell'avvenire.
Quanto alle forze di cui Roma poteva allora disporre per rinnovare la spedizione di Regolo, e se essa fosse in grado di aggiungervi quello che bastasse per abbattere non solo il coraggio, ma anche le mura della potente capitale dei Fenici, è una domanda a cui nessuno s'arrischierebbe ora di rispondere, nè in un senso nè in un altro.
Finalmente fu deciso di inviare dei commissari in Sicilia per decidere sul luogo. Essi approvarono nelle parti essenziali le trattative; solo fu aumentata la somma che Cartagine doveva pagare per le spese di guerra, portandola a 3200 talenti (20.400.000 lire) da pagarsi un terzo subito e il resto in dieci rate annuali.
Se oltre la cessione della Sicilia fu nel trattato definitivo introdotta anche la cessione delle isole poste tra la Sicilia e l'Italia, non deve credersi che con ciò si venisse a mutare la sostanza dei patti: poichè, se Cartagine cedeva la Sicilia, era naturale che non avesse in animo di riprendere il possesso dell'isola Lipara, già da molto tempo occupata dai Romani; che poi queste ambiguità si siano lasciate a bello studio nel trattato è un sospetto indegno ed inverosimile.
Finalmente le due parti si accordarono. L'invitto duce d'una nazione vinta scese dai suoi monti lungamente difesi e consegnò ai nuovi signori dell'isola le fortezze possedute dai Fenici senza interruzione per il lungo spazio di oltre quattrocent'anni e le cui mura avevano respinto vittoriosamente tutti gli sforzi degli Elleni.
L'occidente era in pace. (513=241).