44. Battaglia di Alesia.
Intanto gli insorti avevano tenuto consiglio in Bibracte (Autun), capitale degli Edui, sulla ulteriore condotta della guerra e l'anima di questo convegno fu ancora Vercingetorige, pel quale dopo la vittoria di Gergovia tutta la nazione era entusiasmata.
Veramente anche ora non tacevano gli interessi privati; gli Edui facevano valere anche in questa solenne lotta della nazione le loro pretese alla egemonia e proponevano all'assemblea di nominare uno dei loro al posto di Vercingetorige. Ma i rappresentanti del paese non solo si rifiutarono a ciò e confermarono Vercingetorige nella carica di supremo duce, ma approvarono anche senz'altro il suo piano di guerra.
Era in sostanza quello stesso che gli aveva servito di norma presso Avarico e presso Gergovia. Come punto strategico della nuova posizione fu scelta la città dei Mandubî, Alesia (Alise Sainte Reine presso Semur nel dip. della Costa d'oro)[22] e sotto le sue mura venne piantato un campo trincerato. Vi si ammassarono immense provvigioni, e vi fu inoltre chiamato l'esercito di Gergovia, la cui cavalleria, per disposizioni dell'assemblea, era stata aumentata fino a 15.000 cavalli.
Operata la riunione delle sue forze presso Agedincum, Cesare si volse verso Besançon per approssimarsi all'angustiata provincia e impedirne l'invasione, poichè qualche schiera d'insorti si era lasciata vedere nel territorio degli Elvî sul versante meridionale delle Cevenne.
Alesia si trovava quasi sulla sua via; la cavalleria dei Celti, l'unica arma di cui Vercingetorige poteva servirsi, l'attaccò durante la marcia, ma con sorpresa di tutti fu respinta dai nuovi squadroni germanici di Cesare, e dalla fanteria romana pronta per appoggiarli. Vercingetorige s'affrettò a rinchiudersi in Alesia; e se Cesare non voleva rinunziare all'offensiva, non gli rimaneva da fare altro che continuare, per la terza volta in questa campagna, a procedere offensivamente contro un esercito sussidiato da una immensa massa di cavalleria ed accampato sotto le mura d'una fortezza ben munita e approvvigionata, con un esercito molto più debole.
Ma se i Celti fino allora avevano avuto da combattere solo con una parte delle legioni romane, essi ora avevano di fronte tutte le forze di Cesare, che stringevano d'assedio questa città e di più questa volta non potè Vercingetorige, come in Avarico ed in Gergovia, schierare la fanteria sotto la protezione delle mura della fortezza e mantenere colla sola cavalleria le sue comunicazioni libere al di fuori, mentre avrebbe interrotto quelle del nemico.
La cavalleria celtica, già scoraggiata dalla sconfitta toccatale da nemici da essa stessa tenuti in poco conto, fu battuta dai cavalieri tedeschi di Cesare in ogni scontro. La linea di circonvallazione degli assedianti, compreso il campo trincerato, aveva un'estensione di due leghe intorno alla città.
Vercingetorige aveva calcolato di combattere sotto le mura della città, ma non di essere assediato in Alesia; in questo caso le provvigioni, per quanto fossero abbondanti, non bastavano affatto al bisogno del suo esercito composto di circa 80.000 fanti e 15.000 cavalieri, oltre alla numerosa popolazione. Egli dovette quindi persuadersi che questa volta il suo piano di guerra lo conduceva alla rovina, e che egli era perduto se tutta la nazione non veniva in aiuto per liberare il suo assediato capitano.
Quando dai Romani fu finito il vallo che circondava la città, le sue provvigioni erano sufficenti per un mese o poco più; venuto agli estremi Vercingetorige licenziò, dove la via, almeno pei cavalieri, era ancora libera, tutta la sua cavalleria, facendo contemporaneamente appello ai capi della nazione perchè raccogliessero tutti gli uomini atti alle armi e li conducessero alla liberazione di Alesia. Deciso di assumere personalmente la responsabilità del suo piano di guerra, egli rimase nella fortezza per dividere con i suoi la sorte o in bene o in male.
Cesare si preparò quindi ad assediare e ad essere assediato. Egli dispose che la linea di circonvallazione servisse anche alla difesa dalla parte esterna e fece ammassare le necessarie provvigioni per un lungo tempo.
Scorrevano i giorni; già nella fortezza non v'era un moggio di frumento, già gli infelici abitanti della città ne erano stati cacciati fuori per cadere miseramente fra le trincee dei Celti e dei Romani, dagli uni e dagli altri inumanamente respinti: quando ad un tratto, proprio nell'ultim'ora, scoprirono dietro le linee di Cesare le immense schiere dell'esercito celtico-belga di liberazione, composto probabilmente di 250.000 fanti e di 8000 cavalieri.
Dalla Manica fino alle Cevenne i distretti insorti avevano fatto ogni sforzo per liberare il nerbo dei loro patriotti e il generale da essi eletto; i soli Bellovaci avevano risposto che intendevano combattere i Romani, ma non fuori dai propri confini.
Il primo assalto che gli assediati d'Alesia e le truppe di liberazione al di fuori diedero alle doppie linee romane, fu respinto; ma essendosi esso ripetuto dopo un giorno di riposo, gli assediati riuscirono a colmare i fossi in un luogo dove la linea di circonvallazione si estendeva sul pendio di un'altura, dalla cui sommità si poteva procedere all'attacco, ed a respingere i difensori giù dal riparo.
Allora Labieno, mandatovi da Cesare, raccolte le più vicine coorti, assalì il nemico con quattro legioni. Sotto gli occhi del generale, che comparve personalmente nel momento più pericoloso, gli impetuosi avversari furono ricacciati dopo una disperata mischia corpo a corpo, e gli squadroni sopraggiunti con Cesare, cogliendo i fuggitivi alle spalle, compirono la disfatta.
Questo fatto fu più che una grande vittoria; con esso fu decisa irrevocabilmente la sorte di Alesia, anzi di tutta la nazione celtica. L'esercito dei Celti, completamente scoraggiato, si disperse immediatamente. Vercingetorige avrebbe ancora potuto fuggire o almeno salvarsi coll'ultimo mezzo dell'uomo libero; egli non lo fece, ma dichiarò nel consiglio di guerra, che non essendogli riuscito di liberare il paese dal dominio straniero, egli era pronto a sagrificarsi e a prendere per quanto fosse possibile sul suo capo il male riservato alla nazione.