UNDECIMO CAPITOLO
LA REPUBBLICA E LA SUA ECONOMIA
1. Fallimento dello stato romano.
Abbiamo dietro di noi un periodo di novant'anni, quaranta di profonda pace, cinquanta di quasi permanente rivoluzione.
È questa l'epoca meno gloriosa della storia romana.
Furono bensì varcate le Alpi verso ponente e verso levante, e le armi romane si spinsero nella penisola spagnola sino all'Atlantico, in quella greco-macedone sino al Danubio; ma queste imprese erano state allora tanto facili quanto infruttuose per Roma. Il cerchio delle «popolazioni straniere poste sotto l'arbitrio, la dipendenza, la signoria o l'amicizia del popolo romano»[1] non fu gran fatto esteso; Roma si accontentò di realizzare gli acquisti dei tempi migliori, e di sottomettere alla sua potestà sempre più i comuni a lei uniti da più deboli nodi.
Dietro lo splendido scenario della riunione delle province si celava una sensibile decadenza della potenza romana.
Mentre tutta l'antica civiltà, concentrandosi, sempre più visibilmente nello stato romano, si andava sempre più impersonando in esso, le nazioni barbare al di là delle Alpi e dell'Eufrate, fino allora escluse da quella civiltà, incominciavano a passare dalla difensiva all'offensiva.
Nei campi di battaglia di Aquae Sextiae e di Vercelli, di Cheronea e di Orcomeno, si erano uditi i primi rombi di quella procella, per cui le orde germaniche e le asiatiche erano destinate a sgomentare le popolazioni italo-greche, e di cui gli ultimi cupi fremiti si prolungarono sino quasi ai nostri tempi.
Ma quest'epoca ha lo stesso carattere anche nel suo svolgimento interno.
L'antico edificio cade irreparabilmente in rovina.
La repubblica romana era stata istituita come un comune urbano che per mezzo della sua libera borghesia assegnava a sè stesso i governanti e le leggi; esso entro questi limiti legali era retto con regia libertà da uomini valenti; si stringevano adesso in doppio circolo la federazione italica come un insieme di comuni urbani liberi, essenzialmente omogenei ed affini con i romani, e la lega extra Italia come un insieme di libere città greche e di popoli barbari e di signorie, l'una e l'altra tutelate, anzichè dominate, dal comune di Roma.
L'ultimo risultato della rivoluzione – e tutti e due i partiti, il così detto conservatore e il democratico, vi avevano contribuito e tutti e due vi si accordavano – fu che questo venerando edificio, il quale al principio della presente epoca era screpolato e cadente ma ciononostante si reggeva ancora, allo scorcio della medesima cadde totalmente in rovina.
Il potere sovrano era allora nelle mani d'un solo individuo, o della sola oligarchia composta ora dei nobili, ora dei ricchi.
La borghesia aveva perduto ogni reale ingerenza al governo. I magistrati erano facili strumenti di chi dominava. Il comune urbano di Roma per la sua non naturale estensione si era da sè stesso sfasciato.
La federazione italica era stata assorbita dal comune urbano. La lega extra Italia si andava ogni giorno di più trasformando in sudditanza. Tutta la struttura organica della repubblica romana si era sfasciata e nulla ne era rimasto all'infuori di una massa informe di elementi più o meno disparati.
Questo stato di cose minacciava una completa anarchia ed una dissoluzione interna ed esterna dello stato.
L'indirizzo politico tendeva risolutamente al dispotismo e solo si trattava di decidere se il despota dovesse essere un circolo chiuso di famiglie nobili, un senato di capitalisti o un monarca.
Il movimento politico si era messo decisamente sulla via che conduceva al dispotismo: l'idea fondamentale della libera repubblica, che i partiti contendenti non esercitino che una forza indiretta, era venuta meno ugualmente in tutti i partiti, e qua e là cominciarono a lottare per il potere prima i randelli e poi ben presto anche le spade.
La rivoluzione, giunta alla fine, inquantochè dalle due parti era stata smessa definitivamente l'antica costituzione ed erano stati chiaramente stabiliti lo scopo e la via del nuovo svolgimento politico, non aveva sino allora trovato che espedienti provvisori per simile riorganizzazione dello stato; nè la costituzione di Gracco, nè quella di Silla avevano un carattere duraturo.
Ma ciò che più era doloroso in questi tempi deplorevoli, era che gli stessi patriotti più illuminati non osavano più sperare nè agire.
Il luminoso e benefico astro della libertà si affrettava al tramonto e forieri della notte calavano i crepuscoli sul mondo, poco prima ancora così brillante.
Non era una catastrofe impreveduta, a cui il genio e l'amor di patria potessero porre riparo; erano guasti antichissimi, soprattutto la rovina del ceto medio causata dal proletariato degli schiavi, che traevano in rovina la repubblica romana.
Anche il più illuminato uomo di stato si trovava nella stessa condizione del medico al quale riesce non meno penoso di prolungare che di abbreviare un'agonia.
Per Roma era senza dubbio meglio che un despota, distruggendo d'un tratto tutti i resti dell'antica costituzione liberale, trovasse alla limitata prosperità umana le nuove forme e le nuove formule nell'assolutismo; e la preminenza, che in date condizioni aveva la monarchia di fronte a qual si fosse oligarchia, si basava appunto sulla circostanza che un simile dispotismo, il quale energicamente abbattesse e riedificasse, non poteva esser mai esercitato colla voluta energia da un governo collegiale.
Ma la storia non si fa con queste fredde considerazioni; non la mente, ma solo la passione edifica per l'avvenire.
Era necessario attendere per vedere quanto tempo la repubblica avrebbe continuato nella condizione tra la vita e la morte, e se finalmente essa avrebbe trovato in una potente natura il suo signore, e, per quanto fosse possibile, il suo nuovo fondatore, oppure se fosse perita infelicemente di miseria e di debolezza.