22. Fermento in Roma.
A Roma il fermento era spaventoso. L'attacco diretto da Druso contro i tribunali dei cavalieri e la precipitosa sua caduta cagionata dal partito di questi, la guerra processuale di Vario, che era come una spada a due tagli, avevano messo la più aspra discordia tra l'aristocrazia e la borghesia, come pure tra i moderati e gli intransigenti.
Gli avvenimenti avevano data piena ragione al partito di quelli che inclinavano alle concessioni; più della metà di quanto essa aveva proposto di concedere spontaneamente si dovette concedere per forza; ma il modo con cui questa concessione fu fatta, rivestiva, come il primo rifiuto, il carattere di testarda e sciocca invidia.
Invece di concedere l'eguale diritto a tutti i comuni italici, si accontentarono di dare alla disposizione una forma diversa. Un gran numero di comuni italici era stato ammesso nel consorzio dei cittadini romani, ma le concessioni che si facevano erano ingiuriose, i neo cittadini accanto ai vecchi stavano presso a poco come gli emancipati vicino ai nati liberi. I comuni posti tra il Po e le Alpi si sentirono, per la concessione del diritto latino, più irritati che soddisfatti. Finalmente non solo si rifiutò il diritto di cittadinanza ad una considerevole e non peggiore parte degli Italici, a tutti i comuni insorti nuovamente sottomessi, ma a questi stessi non vennero nemmeno riconfermati legalmente i loro antichi trattati, annullati dalla insurrezione, tutt'al più furono loro rinnovati in via di grazia, e facendoli revocabili ad arbitrio[13].
La restrizione del diritto di votazione era tanto più offensiva, quanto era più politicamente insensata, quando si consideri la condizione in cui allora si trovavano i comizi, e come questa simulata cura del governo a mantenere immacolata la purità delle elezioni dovesse infine parere ridicola ad ogni uomo spregiudicato; tutte queste restrizioni erano pericolose, potendo servire ad altri scopi ad ogni demagogo che si facesse propugnatore delle più o meno giuste domande tanto dei neo-cittadini quanto degli Italici esclusi dal diritto di cittadinanza.
Se quindi i più avveduti dell'aristocrazia dovettero trovar queste mezze e sfavorevoli concessioni non meno sufficienti che i neo cittadini e gli stessi esclusi, essi si accorsero anche con dolore della scomparsa di parecchi ragguardevoli uomini, che la commissione promossa da Quinto Vario per giudicare i delitti d'alto tradimento aveva mandato in esilio.
E si avvidero che tanto più difficile riusciva il richiamarli non essendo essi stati condannati da un giudizio del popolo, ma da un giudizio dei giurati; giacchè quanto facilmente un plebiscito, anche di natura giudiziaria, si cassava con un altro plebiscito, altrettanto la cassazione di un verdetto di giurati col mezzo del popolo sembrava appunto ai migliori dell'aristocrazia un esempio assai pericoloso.
Così dell'esito della crisi italica non erano contenti nè gli estremisti nè i moderati.
Ma un più profondo rancore opprimeva il cuore di Mario.
Il nobile vecchio, che era andato con nuove speranze alla guerra d'Italia, ne era suo malgrado ritornato colla coscienza di aver prestato nuovi servigi e di averne raccolte nuove gravissime afflizioni, coll'amaro sentimento di non incutere più alcun timore ai nemici, ma di esserne poco stimato, e con quel verme di vendetta in cuore che trovava alimento nel suo proprio veleno.
Anche di lui si poteva dire ciò che si disse dei neo cittadini e degli esclusi: inetto e disgraziato come si era dimostrato, il suo nome popolare era un'arma terribile in mano di un demagogo.