8. Attacco alle leggi di Cesare.
Queste replicate sconfitte toccate a Pompeo in senato, e, ciò che era peggio, il doverle tollerare senza potersene vendicare, da qualsiasi parte venissero, apparivano naturalmente presso il gran pubblico come altrettante vittorie dei repubblicani e altrettante sconfitte degli autocrati in generale; in conseguenza di ciò la marea dell'opposizione repubblicana andava sempre più ingrossando.
Già le elezioni pel 698 = 56 non erano riuscite che in parte nel senso dei dinasti: i candidati di Cesare per la pretura, Publio Vatinio e Caio Alfio, erano caduti; invece due decisi aderenti al rovesciato governo, Gneo Lentulo Marcellino e Gneo Domizio Calvino, erano stati eletti, quegli al consolato, questi alla pretura.
Candidato al consolato pel 699 = 55 si era presentato persino Lucio Domizio Enobarbo, l'elezione del quale, vista la sua influenza nella capitale e la colossale sua sostanza, era difficile d'impedire tanto più che si sapeva che egli non si sarebbe accontentato di fare una opposizione velata.
I comizi dunque si ribellavano; e il senato era di accordo con loro. Fu messo solennemente in discussione un parere dato, dietro domanda del senato, da indovini etruschi di nota sapienza sopra certi segni e miracoli. La celeste rivelazione annunciava che a cagione delle contese tra le classi più elevate, tutto il potere sull'esercito e sul tesoro minacciava di passare ad un solo padrone, e che lo stato era minacciato di perdere la sua libertà; sembrava che gli dei mirassero specialmente alla proposta di Caio Messio.
Non passò molto che i repubblicani scesero dal cielo in terra. La legge intorno al territorio capuano e le altre leggi emanate da Cesare console erano state da loro sempre considerate come nulle, e nel dicembre 697 = 57 già si era detto in senato che era necessario annullarle perchè viziate nella forma.
Il 6 aprile 698 = 56 il console Cicerone fece in pieno senato la proposta di mettere per il 15 maggio all'ordine del giorno la discussione della legge per la suddivisione delle terre della Campania. Era la formale dichiarazione di guerra, ed essa era tanto più significativa in quanto usciva dalle labbra di uno di quegli uomini che mostrano il loro colore soltanto quando sanno di poterlo fare con sicurezza.
L'aristocrazia riteneva evidentemente giunto il momento di mettersi in campo non con Pompeo contro Cesare, ma contro la tirannide in generale. Ciò che doveva avvenire era facile prevedere. Domizio non dissimulava che egli come console intendeva proporre nei comizi il richiamo di Cesare dalle Gallie. Una restaurazione aristocratica era iniziata, e colpendo la colonia di Capua la nobiltà aveva gettato il guanto agli autocrati.