31. Le province.
Le province che trovò Cesare erano in numero di quattordici; sette europee: la Spagna ulteriore e citeriore, la Gallia transalpina, la Gallia italica coll'Illiria, la Macedonia con la Grecia, la Sicilia, la Sardegna con la Corsica; cinque asiatiche: l'Asia, la Bitinia e il Ponto, la Cilicia con Cipro, la Siria, Creta; e due africane: Cirene e l'Africa; a cui Cesare, con l'ordinamento delle due luogotenenze della Gallia lionese e del Belgio e colla costituzione dell'Illiria in una provincia a sè, aggiunse ancora nuove giurisdizioni[26].
Nel regime di queste province il malgoverno oligarchico era giunto ad un punto tale come, almeno in occidente, tolta qualche rispettabile eccezione di questo genere, nessun altro governo aveva raggiunto mai, ed oltre il quale, secondo il nostro intendimento, pareva impossibile giungere.
In ogni caso, la responsabilità non era solo dei Romani. Quasi ovunque, prima di essi, il governo greco, fenicio od asiatico, aveva bandito dal popolo l'alto sentimento del diritto e della libertà dei tempi migliori. Era cosa ben dura che ogni provinciale accusato fosse obbligato a recarsi personalmente a Roma per difendersi; che il luogotenente romano s'immischiasse a suo piacere nell'amministrazione della giustizia ed in quella dei comuni vassalli, pronunciasse sentenze di morte e annullasse le deliberazioni del consiglio comunale; che in caso di guerra disponesse a suo talento delle milizie, e spesso in modo scandaloso, come ad esempio fece Cotta, che nell'assedio dell'Eraclea Pontica assegnò alla milizia tutti i posti più pericolosi per risparmiare i suoi italici, e poichè l'assedio non andava secondo il suo desiderio ordinò di mozzare la testa ai suoi ingegneri.
Era ben doloroso che nessuna legge di moralità o nessun diritto di punizione tenesse in freno i luogotenenti ed i loro seguaci, i quali nelle province commettevano arbitrariamente ogni sorta di violenze, oltraggi ed assassini. Ma in tutto ciò non vi era nulla di nuovo; quasi dappertutto si era da lungo tempo abituati ad un trattamento da schiavi ed infine poco importava che comandasse un governatore cartaginese, un satrapo siriaco od un proconsole romano.
Il benessere materiale, quasi l'unica cosa per cui nelle province si avesse ancora una sensibilità, fu certamente molto meno turbato da quei trattamenti che, dato il gran numero di tiranni, colpivano molti, ma solo individui isolati, che non da quelle oppressive vessazioni finanziarie gravanti su tutti indistintamente e che non si erano mai messe in pratica con tanta energia.
I Romani rivelarono ora in modo orribile su questo territorio l'antica loro maestria negli affari. Abbiamo già avuto occasione di spiegare il sistema romano delle imposte provinciali, tanto nelle moderate ed assennate sue basi, quanto nel suo aumento e nella sua corruzione. Si capisce facilmente come l'ultima aumentasse progressivamente. Le imposte ordinarie diventavano sempre più oppressive per l'ineguaglianza della loro ripartizione e per il vizioso sistema della esazione, che non per la loro gravezza.
Quanto all'acquartieramento delle truppe, persino uomini di stato romani dichiaravano che una città soffre ugualmente se è espugnata dal nemico, quanto se vi prende i quartieri d'inverno un esercito romano. Mentre l'imposta, secondo il suo primitivo carattere, era il risarcimento per le spese di guerra assunte da Roma, ed il comune tassato aveva perciò il diritto di essere esonerato dal servizio ordinario, ora, come per esempio è provato per la Sardegna, il servizio delle guarnigioni venne per la maggior parte imposto ai provinciali, e persino negli eserciti permanenti, oltre ad altre prestazioni; tutto il grave peso del servizio della cavalleria era addossato ad essi.
Le prestazioni straordinarie, come, ad esempio, le somministrazioni di cereali contro un tenue risarcimento, od anche senza, per il benessere del proletariato della capitale, i frequenti e dispendiosi armamenti delle flotte e le difese delle coste per impedire la pirateria, le richieste d'opere d'arte, le belve e le altre cose necessarie per soddisfare il lusso sfrenato nei teatri e nelle arene romane, le requisizioni militari in caso di guerra, erano tanto frequenti quanto opprimenti ed incalcolabili.
Un solo esempio può mostrare a qual punto giungevano le cose. Durante l'amministrazione triennale di Caio Verre in Sicilia, il numero dei coltivatori di terre fu ridotto in Leontini da 84 a 32, in Modica da 187 a 86, in Erbita da 252 a 120, in Agirio da 250 a 80; così che in quattro dei più fertili distretti della Sicilia, di cento proprietari di fondi, 59 lasciarono i loro campi a maggese piuttosto che coltivarli sotto quel governo. E questi agricoltori non erano, come già lo dimostra lo scarso loro numero e come viene anche espressamente detto, piccoli contadini, ma ragguardevoli proprietari di latifondi ed in gran parte cittadini romani.
Negli stati clienti le forme delle imposizioni erano alquanto diverse ma il peso era, se fosse possibile, ancora maggiore, perchè oltre i Romani, mungevano gli abitanti anche i principi indigeni. Nella Cappadocia e nell'Egitto era fallito il contadino non meno del re, essendo quello nell'impossibilità di soddisfare l'esattore, questo i creditori romani. A queste si aggiungevano poi le estorsioni non solo del luogotenente stesso, ma anche quelle dei suoi «amici», ognuno dei quali credeva di avere il diritto di ritornare dalla provincia arricchito per mezzo suo.
Sotto questo rapporto l'oligarchia romana rassomigliava completamente ad una banda di assassini che esercitava per mestiere il saccheggio dei provinciali; un alto esponente di essa non guardava tanto pel sottile, poichè doveva dividere col procuratore e coi giurati, e quanto più rubava, tanto più lo faceva sicuramente. E fra questa classe di scellerati era già sorta una certa gerarchia; il gran ladrone guardava con disprezzo il ladrone inferiore, e questi guardava dall'alto al basso il semplice ladro.
Colui che per miracolo era stato condannato una volta, menava vanto della grossa somma della quale gli si imputava l'estorsione. Così maneggiavano gli impieghi i successori di quegli uomini che dalle cariche loro affidate non avevano portato a casa null'altro che la riconoscenza dei vassalli e quella dei concittadini.