2. Sicilia – Sardegna – Libia.
Il trattato di pace, concluso con Cartagine, dette in possesso di Roma la maggior parte della grande, fertile e portuosa isola di Sicilia nel mare occidentale, più importante per l'Italia che non l'Adriatico.
Gerone, re di Siracusa, il quale durante i ventidue anni di guerra s'era mantenuto incrollabile nella fede e nella lega coi Romani, avrebbe avuto diritto a compensi territoriali; ma se Roma aveva incominciata la guerra col deliberato proposito di non tollerare nell'isola che stati secondari, riuscite prosperamente le cose, mirò al possesso esclusivo di tutta la Sicilia. Gerone dovette quindi accontentarsi che gli fosse lasciato il suo stato – cioè, oltre il proprio territorio di Siracusa, anche i distretti di Eloros, Neeton, Akrae, Leontini, Megara e Tauromenion, e la sua piena indipendenza con l'estero (poichè mancava ogni pretesto per scemargliela), così che venne a mantenere la sua prima situazione tanto rispetto all'estensione dei territori quanto rispetto alla autonomia politica; non dovendo sembrargli piccola fortuna se il cozzo delle due grandi potenze non l'aveva frantumato. I Romani intanto presero possesso del rimanente dell'isola, cioè di Panormos, di Lilybeon, d'Akragas e di Messana, che è quanto dire della maggior parte dell'isola, dolendosi che neppure con ciò venisse loro fatto di trasformare il mar Tirreno in un mare interno e tutto romano, essendo rimasta la Sardegna a Cartagine.
Ma si era appena firmata la pace, che la fortuna preparò ai Romani occasioni per levar di bocca ai Cartaginesi anche la seconda isola del Mediterraneo. In Africa, appena cessata la guerra, i soldati mercenari e i sudditi si erano ribellati contro i Fenici.
Di questa pericolosa insurrezione la colpa principale era del governo cartaginese.
Amilcare non aveva potuto pagare, negli ultimi anni di guerra, come aveva fatto per molti anni, col patrimonio personale il soldo ai militi dell'esercito di Sicilia e invano aveva pregato il governo che gli mandasse denaro. Alle sue insistenze finalmente fu risposto che inviasse i soldati in Africa, ove avrebbero avuto le paghe.
Egli ubbidì; senonchè, conoscendo la sua gente, ebbe la previdenza di farli imbarcare a piccoli scaglioni per facilitarne il pagamento, o, se altro non accadeva, per licenziarli; dopo di che egli stesso depose il supremo comando.
Ma ogni previdenza fu vana, non tanto per la mancanza di denaro quanto per la lentezza e l'inettitudine burocratica. Si condussero le cose tanto in lungo, finchè tutto l'esercito si trovò di nuovo raccolto nella Libia, e allora si tentò di ridurre il soldo promesso; ciò che produsse, come era facile prevedere, un ammutinamento, e l'incerto e vile contegno delle autorità rese maggiormente arditi i rivoltosi.
Quasi tutti costoro erano nativi dei distretti dominati o dipendenti da Cartagine; essi conoscevano quali fossero gli umori delle popolazioni dopo la vendette che i Cartaginesi avevano presa di quelle tribù che s'erano mostrate favorevoli a Regolo e per l'insopportabile pressione fiscale cui erano sottoposti, e sapevano altresì che il governo cartaginese nè perdonava mai, nè manteneva mai le sue promesse; per cui era ad essi facile indovinare qual sorte li attendesse quando acconsentissero a sciogliersi e a tornare alle loro case con la paga strappata a viva forza.
Da lungo tempo s'erano andate accumulando in Cartagine materie incendiarie, ed ora quasi a viva forza vi si attiravano vicino coloro che potevano appiccarvi il fuoco.
E proprio come un incendio, la sommossa si propagò da guarnigione a guarnigione, da villaggio a villaggio; le donne libiche offrirono i loro gioielli per pagare la mercede ai soldati; un gran numero di Cartaginesi, fra i quali alcuni distinti ufficiali dell'esercito siciliano, rimasero vittime della soldataglia esasperata; già Cartagine si trovava stretta d'assedio da due parti, e l'esercito cartaginese, che aveva fatto una sortita, era stato completamente sconfitto per l'imperizia del suo generale.
Quando giunse a Roma la notizia di questo fatto e si seppe che il sempre odiato e temuto nemico attraversava così dure difficoltà, quali mai non gli avevano potuto cagionare le armi romane, si ricominciò a rimpiangere d'aver conclusa la pace del 513=241 troppo precipitosamente, dimenticando come in quel tempo, Roma era tanto esausta di forze, quanto invece era salda e vigorosa Cartagine.
Un certo senso di pudore impedì ai Romani di entrare in aperti negoziati coi ribelli di Cartagine, anzi essi consentirono in via d'eccezione che i Cartaginesi, per questa guerra, arruolassero gente d'armi in Italia e vietarono ai navigatori italici di aver commercio coi libici.
Può dubitarsi però che questi ordini siano stati dati seriamente, giacchè si sa che, malgrado ciò, continuando il traffico dei ribelli africani coi navigatori romani, e, avendo Amilcare – il quale, mosso dall'estremo pericolo della patria, aveva di nuovo preso il comando dell'esercito cartaginese – catturato parecchi capitani italici presi in flagrante, il senato romano interpose i suoi uffici in favore di costoro presso il governo cartaginese e ne ottenne la liberazione.
E sembra che anche gli insorti ravvisassero nei Romani i naturali loro alleati, poichè i presidii cartaginesi della Sardegna, che, come tutto il resto dell'esercito, si erano dichiarati in favore degli insorti, quando s'accorsero di non poter tenere l'isola contro gli attacchi degli indomiti montanari dell'interno, ne offrirono il dominio ai Romani (verso l'anno 515=239); e simili offerte furono fatte persino dal comune di Utica, il quale, anch'esso, aveva preso parte alla ribellione e si trovava ridotto agli estremi da Amilcare.
Roma respinse l'offerta di Utica principalmente perchè, accettandola, sarebbe stato necessario impegnarsi fuori dei confini naturali d'Italia, oltrepassando i limiti entro i quali essa voleva allora contenersi; accolse invece le offerte dei ribelli di Sardegna ed accettò da essi le terre appartenenti ai Cartaginesi (516=238).
Di che si deve dar loro maggior biasimo, che per quello ch'essi fecero con i Mamertini, giacchè, essendo essi cittadini d'una possente e gloriosa città, non disdegnarono di stender la mano a quella ciurma di venturieri e di mercenari, e divider con essi le prede, mettendo in dimenticanza, per un utile momentaneo, quello che impone la giustizia e l'onore.
I Cartaginesi, che quasi nel tempo stesso in cui i Romani presero dalle mani dei mercenari la Sardegna, erano al colmo delle loro tribolazioni, non mossero querela per l'indegna violenza: ma appena il pericolo fu stornato dal genio d'Amilcare, e Cartagine riafferrò la piena signoria dell'Africa (517=237) arrivarono a Roma ambasciatori cartaginesi per chiedere la restituzione della Sardegna.
Ma i Romani, che non erano disposti a restituire il mal tolto, risposero contrapponendo a quella domanda vaghe doglianze per ingiustizie sofferte nei dominii di Cartagine da commercianti romani, o per altre questioni di minor conto, e s'affrettarono a dichiarare la guerra[1]; e la massima che in politica, ad ognuno, è permesso di fare ciò che può, si manifestò nella sua sfacciata impudenza.
Una giusta indignazione avrebbe spinto i Cartaginesi ad accettare la sfida. Se Catulo, cinque anni prima, avesse insistito sulla cessione della Sardegna, v'è da credere che i Cartaginesi avrebbero preferito di continuar la guerra ad oltranza. Ma ora che le due isole erano per essi perdute, che la Libia si trovava ancora in subbuglio, e lo stato, dopo una lotta di ventiquattro anni con Roma e la tremenda guerra intestina dei mercenari durata quasi cinque anni si trovava allo stremo delle forze, era giocoforza piegare il capo.
I Romani si fecero pregare assai per non iniziare le ostilità, e desistettero dalle minacce solo quando i Fenici si obbligarono di pagare ad essi 1200 talenti (circa lire 7.400.000) per indennizzarli delle spese sostenute per i preparativi di guerra.
Così, senza quasi colpo ferire, Roma acquistò la Sardegna, cui si aggiunse la Corsica, antico possedimento etrusco, ove forse fin dall'ultima guerra si trovavano stabiliti alcuni presidii romani.
Intanto sull'esempio dei Fenici, in Sardegna, e più ancora nell'aspra Corsica, i Romani si limitarono ad occupare il litorale, rimanendo sempre in guerra cogli abitanti dell'interno delle isole, o meglio dando la caccia agli uomini, lanciando contro di essi cani da presa, e, fatta buona preda, la conducevano al mercato degli schiavi; ma non pensarono mai a sottomettere e governare quelle popolazioni. Non presero possesso delle due isole per averne il dominio territoriale, ma per assicurarsi la signoria d'Italia. Poichè dal momento in cui la federazione aveva il possesso militare delle tre grandi isole, essa poteva giustamente chiamar suo il mare Tirreno.