2. Attacchi ai tribunali senatorî.
Non era quasi più possibile ottenere la condanna di un uomo che avesse appena qualche influenza. Non solo il collega sentiva una giusta compassione per il collega, e l'ex accusato o l'accusato futuro pel presente povero peccatore, ma anche la venalità dei voti dei giurati non era quasi più un'eccezione.
Parecchi senatori erano stati giudiziariamente convinti di questo delitto[1]; gli altri, egualmente colpevoli, si mostravano a dito; gli ottimati più ragguardevoli, come Quinto Catulo, confessavano apertamente in senato che i reclami erano perfettamente fondati; alcuni casi specialmente clamorosi obbligarono parecchie volte il senato come ad esempio nell'anno 680 = 74, a deliberare contro la venalità dei giurati, naturalmente sin che il primo chiasso si fosse sedato e si potesse lasciar scorrere la cosa tranquillamente sotto la crosta del ghiaccio.
Le conseguenze di questa miserevole amministrazione della giustizia si rivelavano specialmente in un sistema di saccheggio e di tormenti per i provinciali, a confronto dei quali gli stessi delitti sinora sofferti sembravano sopportabili e moderati.
Il furto era in un certo modo reso legittimo dall'abitudine; la commissione istituita per investigare sulle concussioni poteva passare per una istituzione destinata a mettere a contributo i senatori reduci dalle province a favore dei loro colleghi rimasti in patria.
Ma quando un siciliano di distinzione, per non aver voluto prestar mano ad un governatore per commettere un delitto, fu da questi condannato a morte in contumacia e senza essere sentito; quando persino cittadini romani, che non fossero cavalieri o senatori, non erano più sicuri in provincia dalle verghe e dalla scure del governatore romano, e la più antica delle conquiste fatte dalla democrazia romana, la sicurezza della persona e della vita, cominciò ad essere calpestata dalla dominazione oligarchica, allora anche il popolo radunato nel foro romano non rimase insensibile alle lagnanze contro i suoi governanti e contro i giudici, che moralmente si rendevano complici di tali misfatti.
L'opposizione non mancò naturalmente di attaccare i suoi avversari sull'unico terreno, che, per così dire, le fosse rimasto, quello giuridico.
Così il giovane Caio Cesare, il quale, per quanto lo consentiva la sua età, si era con zelo mischiato nell'agitazione per il ripristino del potere tribunizio, trasse dinanzi al tribunale nel 677 = 77 uno dei più ragguardevoli partigiani di Silla, il console Gneo Dolabella, e nell'anno seguente un altro ufficiale di Silla, Caio Antonio: così Marco Cicerone nel 684 = 70 fece per Caio Verre, una delle più miserabili creature di Silla, ed uno dei peggiori flagelli dei provinciali.
Giorno per giorno, con tutta la pompa della retorica italica e con tutta l'amarezza dello scherno, si spiegavano dinanzi alla folla radunata le immagini di quel tenebroso tempo delle proscrizioni, gli orrendi patimenti dei provinciali, lo stato abbominevole dell'amministrazione della giustizia criminale, e il potente morto, coi suoi sicari vivi, venivano abbandonati senza compassione all'ira ed allo scherno.
Ogni giorno si reclamava ad alta voce dagli oratori del partito popolare il ristabilimento del pieno potere tribunizio, – al quale sembrava legata la libertà, la potenza e la felicità della repubblica, come per virtù d'un antico sacro incantesimo – il ristabilimento dei «severi» tribunali dei cavalieri, e la rinnovazione della censura soppressa da Silla, per depurare la suprema carica dello stato dai fradici e perniciosi elementi.