12.Trattamento di Pergamo.
Più duramente di tutti fu trattato in questi cambiamenti quel regno, che era stato creato e ingrandito dagli stessi Romani per tenere in freno la Macedonia, e di cui, dopo la caduta di questa, Roma più non abbisognava: il regno degli Attalidi.
Non era facile trovare un pretesto, almeno apparentemente plausibile, per colpire il prudente ed assennato Eumene, cacciarlo dalla sua favorevole posizione e farlo cadere in disgrazia.
Improvvisamente, allorchè i Romani stavano al campo presso Eraclea, si sparsero sul suo conto delle singolari notizie: ch'egli tenesse una segreta corrispondenza con Perseo, che la sua flotta fosse improvvisamente scomparsa; che per non aver egli preso parte alla guerra gli fossero stati offerti 500 talenti e 1500 perchè divenisse intermediario di pace, e che finalmente il trattato non si fosse conchiuso soltanto per l'avarizia di Perseo.
Quanto alla flotta, essa ritornò col re in patria dopo che questi ebbe fatto visita al console e dopo che quella di Roma ebbe presi i quartieri d'inverno. Per ciò che si riferisce alla corruzione, è certo una favola non dissimile dalle tante che leggiamo oggi nei giornali. È non solo un'invenzione, ma una stupida invenzione il voler far credere che il ricco, accorto e fermo Attalide, il quale col suo viaggio nel 582=172 aveva provocato la rottura tra Roma e la Macedonia, per cui aveva corso pericolo di venire assassinato dai sicari di Perseo, avesse voluto vendere per pochi talenti e nel momento appunto in cui erano superate le più gravi difficoltà di una guerra, del cui esito finale egli inoltre non poteva aver mai dubitato seriamente, avesse, dico, voluto vendere al suo assassino la propria parte di bottino e mettere così a repentaglio l'opera di trent'anni per una simile miseria.
Si può asserire con sufficiente certezza, che non se n'è trovata alcuna prova nè nelle carte di Perseo, nè altrove, e che gli stessi Romani non osarono parlare ad alta voce di questi sospetti. Ma essi avevano il loro scopo. Ciò che si voleva, lo prova il contegno tenuto dalle autorità romane verso Attalo, fratello di Eumene, il quale aveva comandato in Grecia le truppe ausiliarie di Pergamo.
Il valoroso e fedele camerata fu accolto a Roma a braccia aperte, e fu invitato a non chiedere pel fratello, sibbene per sè, poichè il senato volentieri gli avrebbe concesso un proprio regno. Attalo non chiese altro che Eno e Maronea.
Ritenendo il senato che questa non fosse che una richiesta preliminare, gliela concesse con molta cortesia. Ma quando egli partì senza fare altre richieste, ed il senato si accorse che i membri della famiglia reale di Pergamo non vivevano in discordia fra loro, al contrario di tutte le famiglie principesche, Eno e Maronea furono dichiarate città libere.
I Pergameni non ebbero un palmo di terreno dal bottino macedone; se dopo la vittoria riportata su Antioco di fronte a Filippo erano state osservate le forme, ora si voleva offendere ed umiliare.
Pare che verso quest'epoca il senato abbia dichiarato indipendente la Pamfilia, pel cui possesso Eumene ed Antioco avevano tanto combattuto.
Più importante fu la circostanza che i Galati – fino allora virtualmente soggetti ad Eumene, dopo che questi ebbe scacciato colla forza dalla Galizia il re del Ponto e nella pace gli ebbe estorta la promessa di non tenersi ulteriormente in alcuna relazione coi principi galati – ora facendo senza dubbio assegnamento sulla freddezza sorta tra Eumene e i Romani, se non addirittura da essi provocata, invasero il suo regno e lo ridussero a mal partito.
Eumene si volse ai Romani chiedendo la loro mediazione presso i Galati; l'ambasciatore vi era disposto; riteneva però che Attalo, il quale comandava l'esercito pergameno, avrebbe fatto meglio a non andare con lui, per non eccitare il malumore dei barbari. Egli non ottenne nulla, anzi al suo ritorno narrò che la sua mediazione aveva inaspriti i barbari più che mai.
Non andò molto che l'indipendenza dei Galati fu dal senato romano formalmente riconosciuta e garantita.
Eumene decise di recarsi a Roma, a perorare la propria causa in senato. Ma questo, mosso quasi dalla cattiva coscienza, decise improvvisamente che in avvenire non sarebbe più concesso ai re di venire in Roma, e fu mandato un questore ad incontrarlo a Brindisi, per comunicargli questo senato-consulto, chiedergli cosa volesse, e significargli che si vedrebbe con piacere la sollecita sua partenza.
Egli comprese come stavano le cose: il tempo delle alleanze semipossenti e semilibere era passato; incominciava quello dell'impotente sottomissione.
Il re tacque lungamente; alla fine disse che nulla voleva e s'imbarcò.