10. Il non intervento in Siria.
È meno giustificabile che il senato omettesse di intervenire direttamente negli affari dell'Asia minore e della Siria.
È vero che il governo romano non riconobbe il conquistatore armeno come re di Cappadocia e di Siria; ma dall'altro lato esso non fece nulla per respingerlo, per quanto la guerra che fu costretto a condurre nella Cilicia contro i pirati, nel 676 = 78, dovesse eccitarlo a intervenire specialmente nella Siria.
Infatti, acconsentendo alla perdita della Cappadocia e della Siria senza una dichiarazione di guerra, il governo romano non solo abbandonava i suoi clienti, ma le basi più importanti della sua posizione politica. Era già cosa grave il rinunciare alle città ed ai regni ellenizzati sull'Eufrate e sul Tigri, che erano le opere avanzate del suo dominio; ma il permettere che gli asiatici si stabilissero sulle coste del Mediterraneo, che formava la base politica del suo dominio, non era una prova di amor di pace, ma una confessione che l'oligarchia colla restaurazione di Silla era divenuta più oligarchica, ma non più assennata nè più energica, e che il dominio romano universale era giunto al principio della fine.
Nemmeno la parte avversaria voleva la guerra. Tigrane non aveva nessuna ragione di desiderarla, dato che Roma gli abbandonava tutti gli alleati senza neppure ricorrere alla forza delle armi. Mitridate, che era più che un sultano, e che aveva avuto molte occasioni di esperimentare amici e nemici nella buona e nell'avversa fortuna, sapeva benissimo, che in una seconda guerra coi Romani egli molto probabilmente si sarebbe trovato solo come nella prima, e che non poteva fare nulla di più sennato che di starsene tranquillo e rinforzare il suo regno nell'interno. Che egli fosse seriamente penetrato di questi sentimenti pacifici lo aveva provato a sufficienza nel convegno avuto con Murena; egli continuava perciò ad evitare ogni cosa che potesse spingere il governo romano ad uscire dalla sua attitudine passiva.
Ma come la prima guerra contro Mitridate era avvenuta senza che alcuna delle due parti l'avesse seriamente desiderata, così anche ora opposti interessi cagionarono reciproci sospetti e quindi reciproci preparativi di difesa, che finalmente condussero per forza di gravità alla aperta rottura.
La sfiducia, che da lungo tempo la politica romana aveva delle proprie forze, ben naturale quando si voglia considerare la mancanza di eserciti permanenti ed il regime collegiale assai poco esemplare, riduceva, per così dire, ad assioma della politica romana il principio di condurre ogni guerra non solo sino al soggiogamento, ma sino all'annientamento del nemico; a Roma quindi si era fin da principio poco contenti della pace di Silla, come, altra volta, delle condizioni che Scipione Africano aveva concesso al Cartaginesi.
Il timore più volte espresso, che sovrastasse una seconda aggressione del re del Ponto, era in qualche modo giustificato dalla grandissima analogia delle attuali condizioni con quelle di dodici anni prima.
Anche ora si combinava una pericolosa guerra civile con seri armamenti di Mitridate; i Traci inondavano di nuovo la Macedonia, e le flotte dei corsari infestavano tutto il Mediterraneo; di nuovo era un'andirivieni di emissari: come una volta fra Mitridate e gli Italici, così adesso tra gli emigrati romani nella Spagna e quelli dimoranti alla corte di Sinope.
Già dal principio del 677 = 77 fu detto in senato, che il re attendeva solo la buona occasione per assalire l'Asia romana fervendo in Italia la guerra civile; gli eserciti romani stanziati in Asia e in Cilicia furono rinforzati per ovviare a possibili eventi.
Dall'altro lato anche Mitridate spiava con crescente inquietudine lo svolgimento della politica romana. Egli doveva sentire che una guerra dei Romani con Tigrane, per quanto il fiacco senato cercasse di evitarla, alla lunga sarebbe divenuta inevitabile, e che egli non avrebbe potuto fare a meno di prendervi parte.
Il tentativo da lui fatto per ottenere dal senato romano il tuttora mancante trattato di pace per iscritto, era andato a vuoto durante gli scompigli della rivoluzione lepidiana, ed era rimasto senza effetto; Mitridate scorse in ciò un indizio dell'imminente ripresa della lotta.
La spedizione contro i pirati, che toccava direttamente anche i re d'oriente, di cui essi erano gli alleati, ne sembrava l'introduzione. E maggior pensiero davano le pretese di Roma sull'Egitto e su Cipro; ed è significativo che il re del Ponto promettesse in moglie le sue due figlie Mitradati e Nissa ai due Tolomei, ai quali il senato continuava a rifiutare il riconoscimento.
Gli emigrati spingevano alla guerra; la posizione di Sertorio in Spagna, per conoscere la quale Mitridate con plausibili pretesti aveva mandato dei messi nel quartier generale di Pompeo, e che difatti appunto in quel momento era imponente, fece nascere al re la speranza di non combattere, come colla prima guerra, contro tutti e due i partiti romani, ma l'uno per mezzo dell'altro. Un momento più propizio non si poteva sperare, e, infine, era sempre meglio dichiarare la guerra che farsela dichiarare.