20. L'assassinio di Sertorio.
Come i successi guerreschi d'Annibale, anche quelli di Sertorio andavano sensibilmente diminuendo; si cominciò a mettere in dubbio il suo talento militare, a dire che non era più quello d'una volta e che passava la giornata in banchetti e sciupava il danaro ed il tempo.
Il numero dei disertori e quello dei comuni ribelli andò aumentando. Non andò molto che vennero a sua conoscenza progetti degli emigrati romani contro la sua vita; vi si poteva prestar fede, tanto più se si pensa che parecchi ufficiali dello esercito degli insorti, e fra questi specialmente Perpenna, si erano adattati solo a malincuore a porsi sotto il comando di Sertorio, e che da lungo tempo i governatori romani avevano promesso l'amnistia ed una forte somma a colui che avesse assassinato il comandante nemico.
Sertorio dopo questi indizi dispensò i soldati romani dalla guardia della sua persona, e l'affidò ad un corpo scelto di spagnoli. Contro gli individui sospetti procedette con terribile ma necessaria severità, e fece condannare a morte parecchi indiziati, senza ricorrere come d'uso, ai giudici; nei circoli dei malcontenti si andava dicendo che egli era ora divenuto più pericoloso agli amici che ai nemici.
Non si tardò a scoprire una seconda congiura, che aveva i1 suo centro nel seno dello stato maggiore; i denunciati dovevano fuggire o morire, ma non tutti furono traditi e gli altri congiurati, primo fra tutti Perpenna, videro in ciò un nuovo stimolo per affrettare il colpo. Questo avvenne nel quartier generale di Osca.
Per disposizione di Perpenna fu annunziata al supremo duce una brillante vittoria; al sontuoso banchetto, disposto dallo stesso Perpenna per celebrare questa vittoria, comparve anche Sertorio, accompagnato come soleva, dal suo seguito di spagnoli.
Contro l'abitudine osservata nel quartier generale di Sertorio il festino si mutò ben presto in baccanale; vi si tennero discorsi grossolani e parve anche come se alcuni degli ospiti cercassero occasione di venire a contesa; Sertorio si coricò sul suo letto e sembrava che non volesse fare attenzione al chiasso. Ad un tratto si udì frantumarsi una tazza sul pavimento: era il segnale convenuto.
Marco Antonio, che a tavola sedeva vicino a Sertorio, vibrò contro questi il primo colpo, e quando il ferito si voltò tentando di balzare in piedi, l'assassino gli fu sopra e lo tenne supino finchè gli altri ospiti, tutti congiurati, si gettarono su i due che si dibattevano ed uccisero l'inerme generale che era tenuto fermo per le braccia (682 = 72).
Con lui morirono i suoi fedeli seguaci. Così finiva la sua vita uno dei più grandi uomini, per non dire il più grande, cui Roma avesse dato fin'allora i natali, un uomo, che in circostanze più fortunate sarebbe stato il rigeneratore della sua patria, e che moriva per il tradimento di una miserabile banda di emigrati, ch'egli era stato condannato a capitanare contro la patria.
La storia non ama i Coriolani; anche per questo uomo essa non ha fatto eccezione, sebbene fosse fra tutti il più magnanimo, il più geniale, il più degno di compassione.