9. Ristabilimento del regno.
Per dirlo con una parola sola, questa nuova dignità imperiale altro non era se non la restaurazione dell'antichissimo regno; perchè appunto quelle restrizioni nella limitazione di tempo e di luogo del potere nella collegialità, e in certi casi nel necessario concorso del senato e del popolo, erano quelle che distinguevano il console dal re.
Non v'è nella nuova monarchia neppure un tratto che non trovi riscontro nella vecchia: la concentrazione dei supremi poteri militari, giudiziario e amministrativo nella mano del principe; una supremazia religiosa sulla repubblica; il diritto di emanare decreti obbligatori; l'abbassamento del senato a consiglio di stato; il risorgimento del patriziato e della prefettura urbana.
Ma più sorprendente ancora di queste analogie è l'interna omogeneità della monarchia di Servio Tullio e della monarchia di Cesare: come quegli antichi re di Roma, nonostante il loro pieno potere, erano però stati padroni di un comune libero e pur protettori dei cittadini contro la nobiltà, così anche Cesare non aveva intenzione di togliere la libertà, ma di completarla, ed anzitutto di rompere l'insopportabile giogo dell'aristocrazia.
Non c'è nemmeno da stupirsi che Cesare, essendo tutt'altro che un antiquario politico, retrocedesse di un mezzo millennio per trovare il modello per il suo nuovo stato; poichè la suprema carica nella repubblica romana era rimasta in tutti i tempi un governo monarchico limitato da un numero di leggi speciali, e anche il concetto della monarchia non era mai andato in dimenticanza.
Anche durante la repubblica si era ritornati praticamente a questo concetto in epoche diversissime e da diversissimi punti di vista, sotto la dittatura repubblicana, sotto il potere dei decemviri, sotto quello di Silla; anzi l'imperium illimitato, che non era altro che l'antico potere reale, si manifestò sempre con una certa logica necessità quando si mostrò il bisogno di un potere eccezionale in antitesi col solito imperium limitato.
Infine anche altri riguardi consigliavano questo ritorno all'antico regno. L'umanità perviene con indicibile fatica a nuove creazioni, e conserva perciò come un sacro retaggio le forme, una volta sviluppate. Perciò Cesare, con molto buon senso, si appigliò a Servio Tullio nello stesso modo con cui più tardi Carlo Magno si appigliò a Cesare, e Napoleone, per lo meno, tentò di appigliarsi a Carlo Magno; ma egli non lo fece con raggiri e di nascosto, ma appunto come i suoi successori, nel modo più possibilmente palese; essendo lo scopo di questo riallacciamento al passato appunto quello di trovare una formula chiara, nazionale e popolare per il nuovo stato.
Da antico tempo sorgevano sul Campidoglio le statue di quei sette re che la storia convenzionale di Roma soleva presentare: Cesare ordinò che per l'ottava vi si aggiungesse la sua; egli comparve in pubblico col costume degli antichi re d'Alba. Nella sua nuova legge sui delinquenti politici, la principale deviazione da quella di Silla era che, accanto al comune e sulla stessa linea, era posto l'imperator come espressione vivente e personale del popolo.
Nella formula usuale dei giuramenti politici a Giove e ai penati del popolo romano si aggiunse il genio dell'imperator. Il segno esterno della monarchia era, secondo l'uso abituale in tutti i tempi antichi, l'effige del monarca sulle monete: dal 710 = 44 in poi su quelle dello stato romano appare la testa di Cesare. I Romani perciò non potevano almeno dolersi che Cesare tenesse loro celati i disegni che aveva nella mente; egli si mostrava palesemente, per quanto gli era possibile, non solo come monarca ma assolutamente come re di Roma.
È persino probabile, sebbene non proprio verosimile, ed in ogni caso anche di minor importanza, che egli avesse avuto in pensiero di indicare la sua carica non col nuovo titolo di imperatore, ma addirittura coll'antico titolo di re[8].
Già durante la sua vita molti dei suoi amici e dei suoi nemici erano d'avviso ch'egli intendesse farsi proclamare formalmente re di Roma: anzi alcuni dei suoi partigiani più appassionati lo eccitarono in parecchie occasioni e in diverse epoche a stendere la mano sulla corona; più evidentemente di tutti lo fece Marco Antonio, il quale durante il suo consolato offrì a Cesare il diadema al cospetto di tutto il popolo (15 febbraio 710 = 44), ma Cesare respinse recisamente queste offerte.
Se egli al tempo stesso procedeva contro coloro che approfittavano di questi avvenimenti per fare un'opposizione repubblicana, non ne segue però ancora che egli con questo rifiuto facesse sul serio.
Anche la ipotesi che questi inviti si facessero per sua insinuazione, con lo scopo di preparare la moltitudine all'insolito spettacolo del diadema romano, è completamente in contrasto con la poderosa forza dell'opposizione di sentimenti con la quale Cesare doveva contare, e che non poteva divenire più cedevole dopo tale pubblico riconoscimento dei suoi diritti da parte dello stesso Cesare, ma anzi avrebbe così guadagnato più largamente terreno.
L'importuno zelo degli sviscerati partigiani di Cesare può aver cagionato tutte queste scene; può anche essere che Cesare permettesse soltanto o combinasse pur anche la scena con Antonio, affinchè col rifiuto del titolo di re, che infatti non era più revocabile, seguito sotto gli occhi dei cittadini, e per suo ordine stesso registrato nel calendario dello stato, ponesse fine agli incomodi pettegolezzi nel modo più chiassoso possibile.
Vi è molta probabilità che Cesare, il quale apprezzava il valore di una formula schietta, appunto come le antipatie di una moltitudine che si attaccano più ai nomi che alla realtà delle cose, fosse deciso ad abbandonare il titolo di re colpito da antichissimo anatema, e perchè ai Romani dei suoi tempi esso era ancora più famigliare per i despoti dell'oriente che non per i loro Numa e per i loro Servii, e di appropriarsi l'essenza della monarchia col titolo di imperatore.