12. Presa di Cartagena.
Publio Scipione partì per la Spagna (544-5=210-209) alla testa d'una fortissima legione e con una cassa ben provvista di denaro, accompagnato dal propretore Marco Silvano, destinato a rimpiazzare Nerone e ad assistere coi suoi consigli il giovane capitano, e dall'ammiraglio ed amico Gaio Lelio.
La sua comparsa in Spagna fu contrassegnata da uno dei più arditi e al tempo stesso dei più venturosi colpi di mano che la storia abbia registrato. I tre generali cartaginesi erano accampati come segue: Asdrubale Barca alle sorgenti del Tago, Asdrubale figlio di Giscone alla sua foce, Magone alle colonne d'Ercole; il più vicino alla capitale cartaginese (Cartagena) ne distava dieci marcie.
Nella primavera del 545=209, prima ancora che gli eserciti nemici si movessero, Scipione irruppe improvvisamente con tutto il suo esercito di circa 30.000 uomini, scortato dalla sua flotta, contro questa città.
Partito dalla foce dell'Ebro, percorrendo la via del litorale, vi giunse in pochi giorni, e sorprese la guarnigione cartaginese, che non contava più di mille uomini, con un attacco combinato per mare e per terra.
La città, posta su d'una lingua di terra sporgente nel porto, si vide allo stesso tempo minacciata dalla flotta romana da tre lati e dalle legioni dal quarto, e senza speranza di prossimo aiuto. Il comandante Magone si difese ciò nonpertanto con risolutezza, e, non bastando i soldati per guarnire le mura, armò i cittadini. Fu tentata una sortita, la quale venne agevolmente respinta dai Romani, che senza perdere tempo a porre un assedio regolare, diedero l'assalto dalla parte di terra.
Con grande impeto si spingevano gli assalitori per la angusta via verso la città; le colonne stanche venivano rimpiazzate sollecitamente da truppe fresche; la debole guarnigione era sfinita dalle fatiche; nondimeno i Romani non raggiungevano alcun successo. Nè lo attendeva Scipione; l'assalto era stato ordinato per distogliere l'attenzione del presidio dalla parte del porto, dove Scipione, avvertito che durante il riflusso un tratto della spiaggia rimaneva asciutta, meditava un secondo attacco. Mentre dalla parte di terra infuriava il combattimento, egli mandava una divisione munita di scale attraverso il banco di sabbia «ove Nettuno stesso mostrar le doveva la via», ed essa ebbe effettivamente la fortuna di trovar le mura senza difesa. Così fu presa la città in un giorno; Magone, che si trovava nella cittadella, capitolò.
Colla capitale cartaginese caddero in mano dei Romani diciotto navi da guerra disarmate, e sessantre onerarie, tutto il materiale di guerra, ragguardevoli provviste di grano, la cassa di guerra con 600 talenti (L. 3.660.000); gli ostaggi di tutti gli alleati spagnuoli di Cartagine, e diecimila prigionieri, fra i quali diciotto gerusiasti, ossia giudici cartaginesi.
Scipione promise agli ostaggi di lasciarli liberi appena la patria di ognuno si fosse alleata con Roma, e si servì dei mezzi offertigli dalla città per rafforzare ed assestare il suo esercito, facendo lavorare per esso duemila operai di Cartagena colla promessa di accordar loro la libertà dopo finita la guerra; scelse inoltre fra la moltitudine i più idonei come rematori per le sue navi.
I cittadini furono risparmiati, lasciando loro la libertà e la posizione che avevano avuto fino allora.
Scipione conosceva i Cartaginesi e sapeva che essi avrebbero ubbidito.
Era cosa di molta importanza assicurarsi il possesso di quella città, che possedeva l'unico eccellente porto sulla costa orientale e ricche miniere d'argento, e non la sola guarnigione.
La temeraria impresa era riuscita; temeraria, dissi, perchè Scipione non ignorava che Asdrubale Barca aveva ricevuto ordine dal suo governo di spingersi nella Gallia, e che si era accinto ad eseguirlo; come sapeva pure che la debole guarnigione lasciata sull'Ebro sarebbe stata difficilmente in grado d'impedirglielo se il ritorno di Scipione fosse di poco ritardato.
Ma egli era ritornato a Tarragona prima che Asdrubale si fosse mostrato sull'Ebro; il pericoloso tentativo fatto dal giovane capitano, abbandonando il suo compito presente per tentare un attraente colpo di mano, fu giustificato dal favoloso successo da lui ottenuto con l'aiuto di Nettuno.
La prodigiosa resa della capitale cartaginese giustificò così, oltre ogni previsione, quanto in patria ci si riprometteva dal meraviglioso giovane, e ciò doveva ammutolire qualunque contrario giudizio.
Scipione fu confermato nel comando per un tempo indeterminato; egli stesso decise di non limitarsi al meschino incarico di custodire il passaggio dei Pirenei.
In conseguenza della presa di Cartagena non solo si erano interamente sottomessi ai Romani gli Spagnuoli residenti al di qua dell'Ebro, ma anche i più potenti principi dell'altra sponda avevano cambiata la clientela cartaginese con quella romana.
Scipione approfittò dell'inverno del 545-6=209-8 per sciogliere la sua flotta e per accrescere colla ciurma di questa il suo esercito di terra, di modo che egli potè al tempo stesso tener d'occhio il settentrione e prendere con maggior vigore, di quello che non avesse fatto sino allora, l'offensiva nel mezzodì, e nel 546=208 si mise in marcia alla volta dell'Andalusia.
Qui si scontrò con Asdrubale Barca, il quale si dirigeva verso il settentrione allo scopo di porre in esecuzione il piano, già da lungo tempo meditato, di venire in aiuto di suo fratello Annibale. Si venne a battaglia presso Becula; i Romani se ne ascrissero la vittoria e dissero d'aver fatto 10 mila prigionieri, ma Asdrubale raggiunse in sostanza il suo obiettivo, sebbene vi sacrificasse una parte dell'esercito.
Con la miglior parte delle sue truppe, con i suoi elefanti e con la sua cassa, egli si aprì un varco attraverso il paese e pervenne alla costa settentrionale; raggiunse, costeggiando l'oceano, i passi occidentali dei Pirenei, che pare non fossero occupati; arrivò nella Gallia prima che cominciasse la cattiva stagione, e vi pose i quartieri d'inverno.
Allora si chiarì che la risoluzione presa da Scipione di combinare l'offensiva con l'impostagli difensiva non era nè ben meditata, nè assennata; il vittorioso capitano alla testa d'un forte esercito, con tutta la sua presunzione, era venuto meno al compito principale dell'esercito di Spagna, che non solo il padre e lo zio, ma lo stesso Gaio Marcio e Gaio Nerone avevano saputo assolvere con mezzi molto inferiori; e fu colpa sua, se nell'estate del 547 si trovò in una pericolosa situazione, allorchè il progetto d'Annibale d'un attacco combinato contro l'urbe venne finalmente effettuato.
Ma gli dei vollero coprire d'allori gli errori del loro prediletto. In Italia il pericolo passò felicemente; si fece buon viso al bollettino dell'ambigua vittoria riportata presso Becula, e quando giunsero dalla Spagna altri bollettini di vittorie, non si pensò più che si era dovuto combattere in Italia il più esperto capitano ed il nerbo dell'esercito ispano-cartaginese.