35. Spedizione nella Bretagna.
Rimanevano i Celti isolani. Dati gli intimi rapporti, esistenti tra costoro ed i Celti di terraferma, e specialmente quelli dei distretti marittimi, è facile comprendere come essi, almeno colle loro simpatie, avessero preso parte alla resistenza nazionale, e come, non potendo venire in aiuto dei compatrioti con le armi, avessero accordato a chi non trovava più sicurezza in patria, un onorevole asilo nella loro isola protetta dal mare.
Questo tratto di pietà, se non pel momento, almeno per l'avvenire, aveva certo dei pericoli; sembrava conveniente, se non l'imprendere il soggiogamento dell'isola stessa, di sostenere anche qui la difesa passando all'offensiva e di far sentire agli isolani, con uno sbarco sulle loro coste, che il braccio dei Romani arrivava anche oltre la Manica.
Il primo ufficiale romano che aveva messo il piede sul suolo della Bretagna, Publio Crasso, si era già recato (697 = 57) alle «isole dello stagno», che sorgono all'estremità sud-ovest dell'Inghilterra (isole Scilly); nell'estate del 699 = 55 Cesare stesso passò con due legioni la Manica dove è più breve il tragitto[18]. Egli trovò la riva guarnita di truppe nemiche e veleggiò oltre; ma i carri di guerra britannici correvano veloci per terra come le galere romane sul mare e ai soldati romani non riuscì che colla massima difficoltà e sotto la protezione delle navi da guerra che tenevano sgombra la costa colle baliste e colle fionde, di guadagnare la riva sotto gli occhi dei nemici, parte a guado parte in battelli.
Al primo spavento i più prossimi villaggi si sottomisero; ma subito gli isolani si accorsero come il nemico fosse debole e come non osasse spostarsi dalla riva. Gli indigeni scomparvero ritirandosi nell'interno e non ritornarono che per minacciare il campo dei Romani; la flotta poi, che questi avevano lasciato nella rada aperta, aveva sofferto gravissime avarie dalla prima procella sopraggiunta.
I Romani dovettero dirsi fortunati di respingere gli attacchi dei barbari finchè le navi non fossero alla meglio riparate e di raggiungere con esse di nuovo la costa gallica ancor prima che cominciasse la cattiva stagione.
Cesare stesso era così malcontento dei risultati di questa spedizione intrapresa con tanta leggerezza e con mezzi così insufficienti, che fece subito (inverno 699-700 = 55-4) allestire una flotta da trasporto di 800 vele, e nella primavera del 700 = 54 alla testa di cinque legioni e di 2000 cavalieri salpò una seconda volta verso le coste del Kent.
Alla vista di questa grande flotta, anche questa volta la forza armata dei Britanni, radunata sulla costa senza osare di cimentarsi in una battaglia si ritrasse; Cesare si mise subito in marcia per l'interno dell'isola e dopo alcuni felici combattimenti passò il fiume Stour; ma dovette con suo grandissimo dispiacere sospendere la marcia, perchè la flotta lasciata nella rada aperta era stata di nuovo mezzo distrutta dalle tempeste sopraggiunte nella Manica.
Prima che le navi fossero tirate a secco e che fossero date le necessarie disposizioni per le riparazioni passò un tempo prezioso, del quale i Celti seppero saviamente trarre partito.
Il valoroso ed avveduto principe Cassivellauno, che signoreggiava nell'odierna contea del Middlesex e paesi vicini – in passato terrore dei Celti, al mezzodì del Tamigi, ora rifugio e sostegno di tutta la nazione – si era messo alla testa di tutte le forze armate per la difesa del paese.
Egli si avvide presto che la fanteria celtica era assolutamente nulla di fronte alla romana, e che la leva in massa, oltre la grave spesa del mantenimento e la difficoltà di tenerla in freno, non riusciva che d'impedimento per la difesa; perciò la licenziò e conservò solo i carri da guerra che raccolse in numero di 4000 e i relativi combattenti, i quali, addestrati a scendere d'un salto dai carri e a battersi anche a piedi come la cavalleria cittadina dell'antica Roma, potevano servire in due modi.
Quando Cesare fu in grado di continuare la sua marcia, non trovò in nessun luogo degli ostacoli; ma i carri da guerra dei Britanni precedevano e passavano continuamente a fianco dell'esercito romano, tenevano sgombrato il paese – il che per la mancanza di città non era difficile ad ottenersi – impedivano che venissero dai Romani distaccate le truppe e minacciavano le comunicazioni.
I Romani passarono il Tamigi – pare tra Kingston e Brentford –; si andava innanzi ma non si facevano veri progressi; il generale non vinceva alcuna battaglia, il soldato non faceva bottino, e l'unico vero risultato, la sottomissione dei Trinobanti nell'odierno Essex, era prodotto meno, dalla loro paura di fronte al Romani, che dal profondo odio di questo distretto verso Cassivellauno.
Ad ogni passo il pericolo si faceva maggiore e l'attacco fatto dai principi del Kent per disposizione di Cassivellauno contro la stazione della flotta romana, sebbene fosse stato respinto, ammoniva seriamente alla ritirata.
La presa d'assalto di una trincea di piante abbattute, che procurò ai Romani una quantità di bestiame, fornì per l'inutile avanzata una meta soddisfacente, e un discreto pretesto per tornare indietro. Ed anche Cassivellauno era abbastanza avveduto per non spingere agli estremi il pericoloso nemico e promise, su richiesta di Cesare, di non molestare i Trinobanti, di pagare un tributo e di dare ostaggi; non si parlò di consegna d'armi, nè di presidî romani, ed anche le promesse fatte per l'avvenire, non furono probabilmente nè date nè ricevute seriamente.
Dopo ricevuti gli ostaggi Cesare fece ritorno alla stazione navale e salpò per la Gallia. Se ad ogni modo egli, come sembra, aveva sperato di soggiogare questa volta la Britannia, questo piano era andato del tutto fallito, sia per l'accorto sistema di difesa di Cassivellauno, sia, e anzitutto, per l'inservibilità delle navi a remi dei Romani nel mare del nord; è poi certo che in quanto al tributo pattuito, esso non fu mai pagato. Ma pare che fosse raggiunto lo scopo immediato, quello di togliere i Celti isolani dall'arrogante loro sicurezza e di indurli, nel proprio interesse, a non tollerare più a lungo che la loro isola servisse di focolare all'emigrazione della terra ferma; almeno d'allora in poi non si udirono più lamenti per tale patrocinio.