12. Perplessità dei Romani.
Il senato romano, dopo questi fatti, rimase in grave perplessità. La guerra durava da sedici anni e pareva che la fine ne fosse più lontana di ciò che era sembrato nel primo anno. Si erano perdute quattro grandi flotte, delle quali tre avevano a bordo eserciti; un quarto esercito, fiore di milizia, era stato distrutto dal nemico nella Libia, senza contare le perdite prodotte dai corsari, dagli scontri alla spicciolata, dalle battaglie sostenute in Sicilia, dalle innumerevoli guerriglie e dalle epidemie.
Quello che la guerra sia costata a Roma si rileva facilmente dal fatto, che il censimento della popolazione solo dal 502 al 507=252 al 247 diminuì di circa 40.000 anime, che è come dire la sesta parte della popolazione; e in questo calcolo non sono comprese le perdite degli alleati, che portarono soli tutto il peso della guerra marittima e nello stesso tempo parteciparono, almeno quanto i Romani, alla guerra terrestre.
Non è possibile farsi un'idea delle perdite finanziarie, ma è facile immaginare come debba essere stato gravissimo tanto il danno diretto cagionato all'erario pubblico dalla perdita delle navi e del materiale, quanto il danno derivante dal ristagno del commercio.
Ma quel che rendeva più grave la situazione era che tutti i mezzi coi quali si sarebbe potuta ultimare la guerra erano esauriti.
Si era tentato uno sbarco in Africa con un esercito valido e già favorito dalla vittoria, e il colpo era andato fallito. Si era cominciato a ventilare il piano di espugnare una dopo l'altra le fortezze cartaginesi nella Sicilia; per le piccole fortezze la cosa era riuscita, ma le due più considerevoli, Lilibeo e Trapani, s'erano dimostrate più che mai imprendibili. I senatori si persero d'animo; essi lasciarono andare le cose come potevano, benchè sapessero benissimo, che una guerra prolungata all'infinito e senza scopo, riuscirebbe all'Italia più rovinosa assai d'uno sforzo supremo per farla finita; ma mancava loro il coraggio e la fiducia nel popolo e nella fortuna per domandare nuovi sacrifici, dopo che già s'erano inutilmente logorate tante forze e tanti denari.
Venuti a questa decisione, licenziarono la flotta, ridussero la guerra marittima ad azioni di pirateria, e a questo scopo furono concesse ai capitani, che volessero per proprio conto uscir in mare, le navi da guerra dello stato.
In Sicilia si continuò la guerra perchè altro non si poteva fare, ma guerra di nome, in cui si tenevano d'occhio le fortezze cartaginesi e si conservavano a stento le romane; cosa di poco frutto e che nondimeno, senza l'appoggio d'una flotta, richiedeva numerosissime milizie e costosissimi apparecchi.
Se vi fu momento in cui Cartagine poteva abbassare la potente sua rivale, fu quello.
Non c'è dubbio che anche Cartagine doveva sentirsi spossata; ma per ben altra ragione; poichè ai Cartaginesi le guerre non costavano quasi altro che danaro, e le finanze fenicie non potevano essere così esauste da non permettere ai Cartaginesi di continuare con vigore una guerra offensiva.
Ma il governo cartaginese era debole e rilassato ogni volta che non fosse spronato dal miraggio d'un lucro facile e sicuro, o spinto dall'estrema necessità. Contento di non aver più addosso la flotta romana, trascurò stoltamente la propria, e, seguendo l'esempio della sua nemica, cominciò a rallentare la guerra, limitandosi a scorrerie per terra e per mare nella Sicilia e sui lidi vicini.
Così trascorsero sei anni (506-511=248-243) senza un fatto degno di essere ricordato, gli anni più ingloriosi che si riscontrino nella storia romana di questo secolo, e non meno ingloriosi anche per i Cartaginesi. Ma tra questi viveva un uomo, per altezza di pensiero e fortezza d'animo, assai diverso dai suoi improvvidi cittadini.