11. Intervento diplomatico dei Romani.
Nell'occidente si andava effettivamente addensando contro Filippo una procella che non gli consentiva di continuare ulteriormente lo spogliamento dell'inerme Egitto.
I Romani, che nello stesso anno avevano finalmente conchiusa la pace con Cartagine, dettandone essi stessi le condizioni, cominciarono ad occuparsi seriamente delle complicazioni nell'oriente.
Fu detto da molti che dopo la conquista dell'occidente i Romani avrebbero pensato di sottomettere l'oriente; ma una più seria considerazione condurrà ad un più equo giudizio. Soltanto una stolta ingiustizia può ritenere che di quel tempo Roma non aspirasse assolutamente alla signoria degli stati mediterranei, e che altro non volesse tanto in Africa come in Grecia, se non dei vicini che non potessero recarle molestia; e veramente la Macedonia non era un paese pericoloso per Roma.
Certo che la sua forza non era spregevole, ed è evidente che il senato romano non acconsentì che mal volentieri alla pace del 348-9=206-5, la quale le lasciava interamente la sua integrità; ma quanto poco pensiero desse o potesse dare la Macedonia a Roma lo prova all'evidenza lo scarso contingente di soldati con cui Roma fece in seguito la guerra, e che pure non ebbe mai da combattere contro forze soverchianti.
Il senato avrebbe voluto bensì l'umiliazione della Macedonia; ma gli sarebbe costato troppo cara ottenerla a prezzo d'una guerra continentale fatta con truppe romane in Macedonia, e perciò, dopo la ritirata degli Etoli, esso fece spontaneamente la pace sulla base dello statu quo.
È quindi ben lungi dall'essere provato che il governo romano abbia stipulato questa pace colla ferma intenzione di ricominciare la guerra a tempo più opportuno, mentre è certo che pel momento, considerato il totale esaurimento del paese e l'estremo malumore dei cittadini al pensiero di ingolfarsi in una seconda guerra d'oltremare, la guerra macedone riusciva ai Romani in sommo grado incomoda.
Ma allora essa era inevitabile. Si poteva anche tollerare per vicino lo stato macedone, come esso era nell'anno 549=205; ma era impossibile acconsentire che il medesimo s'accrescesse colla miglior parte della Grecia asiatica e colla importante Cirene, che opprimesse gli stati commerciali neutrali e così raddoppiasse la sua potenza.
Oltre ciò la caduta dell'Egitto, l'avvilimento e forse il soggiogamento di Rodi avrebbero certamente recato profonde ferite anche al commercio siciliano ed italico; ed i Romani potevano rimanere tranquilli spettatori che il commercio dell'Italia coll'oriente dipendesse dalle due grandi potenze continentali?
A Roma incombeva d'altronde il sacro dovere di difendere Attalo, suo fedele alleato nella prima guerra macedonica, e d'impedire che Filippo, il quale già lo teneva assediato nella sua capitale, lo scacciasse da' suoi dominii.
La pretesa, finalmente, che Roma aveva di proteggere tutti gli Elleni, non era già una semplice frase; i Napoletani, i Reggini, i Massalioti e gli Emporiensi potevano testimoniare che quella protezione era un fatto, e non vi è poi alcun dubbio che in quei tempi i Romani erano in più stretti rapporti coi Greci di qualsiasi altra nazione, e poco meno dei Macedoni ellenizzati.
È cosa strana voler contendere ai Romani, nelle loro simpatie pei Greci e per la causa dell'umanità, il diritto di sentirsi muovere a sdegno per lo scellerato trattamento fatto a quelli di Chio e di Taso. Concorrevano perciò tutti i motivi politici, commerciali e morali per decidere i Romani ad intraprendere una seconda guerra contro Filippo, che fu una delle più giuste che Roma abbia mai fatto. E ridonda in sommo grado ad onore del senato, ch'esso vi si sia immediatamente determinato, e che non se ne sia lasciato distogliere nè dall'esaurimento delle pubbliche finanze, nè dall'impopolarità di una tale dichiarazione di guerra.
Il governo prese quindi le sue misure; e già nel 553=201 il pretore Marco Valerio Levino comparve nel mare di oriente colla flotta siciliana composta di 38 vele. Esso era però imbarazzato nel trovare il pretesto plausibile, di cui abbisognava necessariamente in faccia al popolo, quand'anche non fosse stato troppo perspicace per sprezzare, a modo di Filippo, l'importanza della motivazione legale.
L'aiuto, che si riteneva Filippo avesse prestato ai Cartaginesi dopo la pace conclusa con Roma, non si poteva naturalmente provare.
I sudditi romani nell'Illiria si lamentavano, a dir vero, da lungo tempo delle violenze esercitate dai Macedoni; sino dal 551=203 un ambasciatore romano, alla testa della milizia illirica, aveva scacciato le schiere di Filippo dal suolo illirico, ed il senato aveva perciò dichiarato nel 552=202 agli ambasciatori del re, che se questi voleva la guerra, l'avrebbe avuta prima di quanto non la desiderasse.
Ma simili violenze non erano che i soliti delitti che Filippo commetteva contro i suoi vicini; le trattative in proposito avrebbero condotto ad atti di umiliazione ed a soddisfazioni, ma non alla guerra.
La repubblica romana era in relazioni amichevoli, almeno nominalmente, con tutte le potenze belligeranti nell'oriente, e sarebbe stata in facoltà di accorrere in loro aiuto nel caso di un'aggressione. Ma Rodi e Pergamo, le quali come è ben naturale, furono sollecite a chiedere l'aiuto dei Romani, furono formalmente le assalitrici, e l'Egitto – sebbene ambasciatori alessandrini avessero pregato il senato romano di assumere la tutela del re fanciullo – pare che non si affrettasse ad invocare l'intervento romano per far cessare le angustie del momento, benchè nello stesso tempo aprisse l'accesso del mare orientale a quella grande potenza marittima dell'occidente.
L'Egitto doveva prima di tutto venire aiutato dalla Siria, ciò che avrebbe coinvolto i Romani in una guerra coll'Asia e contemporaneamente colla Macedonia, che essi, come è naturale, si studiavano di evitare, tanto più che erano fermamente decisi a non immischiarsi per lo meno negli affari dell'Asia.
Pel momento non v'era altro espediente che quello di inviare un'ambasciata in oriente, per ottenere dall'Egitto ciò che, avuto riguardo alle circostanze, non era difficile, cioè l'intervento dei Romani negli affari dei Greci; calmare il re Antioco lasciandogli il dominio della Siria, ed infine accelerare possibilmente la rottura con Filippo e promuovere contro di lui la coalizione dei piccoli stati greco-asiatici dell'Asia minore (fine del 553=201).
In Alessandria si ottenne senza difficoltà quanto si desiderava; la corte non poteva far a meno di accogliere con riconoscenza Marco Emilio Lepido, che il senato vi aveva inviato, affinchè, «qual tutore del re», difendesse i suoi interessi per quanto lo potesse senza un vero intervento.
Antioco non si svincolò dalla sua lega con Filippo, nè diede ai Romani le recise spiegazioni che essi desideravano; ma poi sia per rilassatezza, sia in seguito alla dichiarazione dei Romani di non voler intervenire in Siria, egli vi proseguì i suoi piani abbandonando le cose, nella Grecia e nell'Asia minore, a se stesse.