12. Approvazione della legge agraria.
L'aristocrazia, avendo alla testa Bibulo, povero di spirito e testardo, e Catone, irremovibile e pazzo sistematico, si era realmente prefissa di spingere le cose agli estremi. Pompeo, indotto da Cesare a pronunciarsi sul suo atteggiamento di fronte alla presente questione, dichiarò liberamente, ciò che non era suo costume, che se qualcuno osasse impugnare la spada, egli pure avrebbe brandito la sua e che non avrebbe poi dimenticato a casa il suo scudo; egualmente si espresse Crasso.
I veterani di Pompeo furono invitati ad intervenire il giorno del suffragio, essendo essi i primi interessati, in gran numero e con le armi nascoste, nella piazza della votazione. Tuttavia la nobiltà non tralasciò alcun mezzo per rendere vane le proposte di Cesare. Ogni giorno in cui Cesare si presentava al popolo, il suo collega Bibulo ricorreva alle notorie osservazioni di meteorologia politica, che interrompevano tutti gli affari pubblici; Cesare non si curava del cielo e continuava a trattare i suoi affari terrestri.
Si oppose il veto tribunizio; Cesare si limitò a non curarsene. Bibulo e Catone saltarono sulla tribuna, arringarono la moltitudine e produssero il solito tumulto: Cesare li fece condurre via dai littori coll'ordine che non venisse loro fatto alcun male; era pure nel suo interesse che questa commedia politica restasse quale era.
Non ostante tutti i cavilli e tutto lo strepito della nobiltà, la borghesia adottò la legge agraria, sanzionò l'organizzazione delle province asiatiche e decretò il ribasso richiesto dagli appaltatori delle imposte; venne eletta e messa al suo posto la commissione dei venti con Pompeo e Crasso alla testa; con tutti i suoi sforzi l'aristocrazia non era riuscita ad altro che a provocare la coalizione colla cieca ed odiosa opposizione a stringere più saldi i suoi legami e ad esaurire l'energia in cose indifferenti, mentre essa doveva ben presto aver bisogno della borghesia per faccende di grave peso.
Si felicitavano reciprocamente del loro eroismo; l'avere Bibulo dichiarato di voler piuttosto morire che cedere, e l'aver Catone mentre era in potere degli sgherri continuato a perorare, erano gloriose gesta patriottiche; del resto essi si abbandonarono al loro destino.
Il console Bibulo si chiuse in casa durante tutto il resto del suo consolato, facendo conoscere, con un pubblico avviso, di avere egli la pia intenzione di scrutare i segni celesti in tutti i giorni destinati durante quell'anno alle adunanze popolari. I suoi colleghi ammirarono nuovamente il grand'uomo, il quale, come disse Ennio del vecchio Fabio, «temporeggiando salvava lo stato» e lo imitarono: la maggior parte di essi, fra i quali Catone, non comparve più in senato, e così circoscritti entro le loro quattro pareti contribuirono ad accrescere l'ira del proprio console, poichè non ostante l'astronomia politica, la storia del mondo non s'arrestava.
Il pubblico considerava giustamente questo contegno passivo del console e in generale dell'aristocrazia come un'abdicazione politica; e la coalizione ne era naturalmente contenta, poichè così poteva procedere per la propria via quasi senza trovare ostacoli.