Ciò che conviene ai più poveri
“Finché i redditi delle classi della società attuale rimarranno esclusi dalla ricerca scientifica, sarà vano pretendere di tracciare una storia economica e sociale credibile.” È con questa bella frase che si apre il libro dedicato nel 1965 da Jean Bouvier, François Furet e Marcel Gilet alle dinamiche del reddito in Francia nell’Ottocento (Le mouvement du profit en France au XIXe siècle), un libro che merita di essere riletto, perché è una delle opere più esemplari della storia “basata sui dati” che ha prosperato in Francia nel XX secolo (sostanzialmente dagli anni trenta agli anni settanta), con le sue qualità e i suoi difetti – un’opera tra l’altro importante per il percorso intellettuale di François Furet, il quale illustra a meraviglia le buone e le cattive ragioni che spiegano la sconfitta del programma di ricerca intrapreso.
Quando Furet, giovane storico di talento, inizia la propria carriera, si volge verso quello che gli sembra essere il principale oggetto di ricerca: “il reddito delle classi della società contemporanea”. Il libro è rigoroso, privo di pregiudizi, e cerca innanzitutto di raccogliere materiali e stabilire fatti. Tuttavia rimane il primo e ultimo libro di Furet sull’argomento. In Lire et écrire, magnifica opera pubblicata nel 1977 con Jacques Ozouf e dedicata all’“alfabetizzazione dei francesi da Calvino a Jules Ferry”, ritroviamo un’analoga volontà di fissare delle categorie, questa volta non più in materia di profitti industriali ma di tassi di alfabetizzazione, numero di insegnanti, spese per l’istruzione. E tuttavia Furet è in seguito diventato celebre per i lavori sulla storia politica e culturale della Rivoluzione francese, nei quali si fa fatica a trovare traccia dei “redditi delle classi della società contemporanea”, e nei quali il grande storico, impegnato com’è nella battaglia ingaggiata nel corso degli anni settanta contro gli storici marxisti della Rivoluzione francese (allora particolarmente dogmatici e nettamente maggioritari, soprattutto alla Sorbona), pare osteggiare ogni forma di storia economica e sociale. Il che mi sembra un peccato. Perché, dal mio punto di vista, è possibilissimo conciliare l’approccio politico con quello economico. È evidente che vita politica e vita delle idee procedono autonomamente rispetto ai processi economici e sociali, che le istituzioni parlamentari e lo stato di diritto non sono certo quelle istituzioni borghesi descritte dagli intellettuali marxisti prima della caduta del Muro. Ma è altrettanto evidente che i contraccolpi subiti dai prezzi e dai salari, dai redditi e dai patrimoni, contribuiscono ad alimentare le percezioni e gli atteggiamenti politici, e che a loro volta queste rappresentazioni alimentano istituzioni, regole e politiche destinate a modellare i processi economici e sociali. È possibile, e anche indispensabile, elaborare un approccio che sia al tempo stesso economico e politico, salariale e sociale, patrimoniale e culturale. I conflitti polarizzati del periodo 1917-69 sono ormai alle nostre spalle. Anziché stimolare ricerche sul capitale e sulle disuguaglianze, gli scontri su capitalismo e comunismo hanno semmai contribuito a sterilizzarle, tra gli storici e gli economisti come tra i filosofi.2 È venuto il momento di passare oltre, anche per quanto riguarda la ricerca storica, che, a mio parere, è stata la più compromessa dagli scontri del passato.
Come ho notato nell’Introduzione, esistono anche ragioni del tutto tecniche in grado di motivare la scomparsa prematura della storia “basata sui dati”. Le difficoltà materiali legate all’acquisizione e al trattamento dei dati spiegano sicuramente perché lavori del genere (compreso Le mouvement du profit en France au XIXe siècle) dedichino in sostanza ben poco spazio all’interpretazione storica – il che rende a volte la lettura delle stesse opere piuttosto arida. In particolare, l’analisi dei legami tra i processi economici messi in luce e la storia politica e sociale del periodo studiato è spesso ridotta ai minimi termini, e lascia completamente il posto a una descrizione meticolosa delle fonti e dei dati puri e semplici, tutti elementi che oggi trovano posto nelle pagine elettroniche in formato Excel e nelle banche dati disponibili online.
Ho anche l’impressione che la fine della storia “basata sui dati” sia legata al fatto che un tale programma di ricerca è morto prima di affrontare la storia del XX secolo. Quando si studiano il XVIII o il XIX secolo, è possibile quantomeno immaginare che le traiettorie dei prezzi e dei salari, dei redditi e dei patrimoni, seguano una logica economica autonoma e interagiscano poco o nulla con le logiche propriamente politiche e culturali. Ma quando si studia il XX secolo una simile illusione viene subito a cadere. Basta gettare una rapida occhiata alle curve seguite dalla disuguaglianza dei redditi e dei patrimoni o al rapporto capitale/reddito per accorgersi che la politica è ovunque, e che i processi economici e politici sono indissolubili e vanno studiati di concerto. Il che significa studiare in pari misura lo Stato, l’imposta e il debito nelle loro dimensioni concrete, cioè uscire dagli schemi semplicistici e astratti per la struttura economica e per la sovrastruttura politica.
È vero che un sano principio di specializzazione può giustificare il fatto che non tutti si mettano a stabilire dati statistici. Esistono mille modi di fare ricerca nell’ambito delle scienze sociali, e quello “basato sui dati” non è sempre indispensabile, né particolarmente fantasioso (ne convengo). Ma è anche vero che i ricercatori di scienze sociali (tutte le scienze sociali), i giornalisti e i responsabili di tutti i tipi di media, i militanti sindacali e politici di ogni tendenza, e in primo luogo tutti i cittadini, dovrebbero interessarsi al denaro, alla sua misurazione, ai fatti e ai processi che lo riguardano. Chi ne ha molto non dimentica mai di difendere i propri interessi. Il rifiuto della contabilità ha raramente giovato ai più poveri.
1 Va aggiunto che, da un punto di vista strettamente teorico, un rialzo del tasso di crescita g può anche portare a un rialzo del rendimento da capitale r, e non produrre quindi alcuna riduzione della disparità r-g. Cfr. cap. 10.
2 Quando si leggono i testi dedicati da Sartre, Althusser o Badiou al loro impegno di marxisti e di comunisti, si ha talvolta l’impressione che il problema del capitale e delle disuguaglianze tra classi sociali li interessi solo moderatamente, e che in realtà si tratti di un pretesto per schermaglie d’altra natura.