Il bilancio nazionale, una costruzione sociale in divenire
Una volta enunciati i concetti essenziali di prodotto e di reddito, di capitale e di patrimonio, di rapporto capitale/reddito e di tasso di rendimento del patrimonio, è il momento di cominciare a esaminare più da vicino come queste nozioni astratte possano essere valutate in concreto, e quale sia la loro lezione in merito al processo storico della distribuzione delle ricchezze nelle diverse società. Prima riassumeremo in breve le tappe principali della storia dei bilanci nazionali, poi illustreremo a grandi linee sia la trasformazione della distribuzione mondiale del prodotto e del reddito sia il progresso dei tassi di crescita demografica ed economica dal XVIII secolo a oggi, progresso che svolgerà un ruolo essenziale nel prosieguo della nostra analisi.
Come abbiamo già notato nell’Introduzione, i primi tentativi di calcolo del reddito nazionale e del capitale nazionale risalgono al periodo tra la fine del XVII secolo e l’inizio del XVIII. Attorno al 1700, vedono la luce numerose stime isolate, indipendenti, a quanto pare, l’una dall’altra, nel Regno Unito e in Francia. Si tratta in primo luogo dei lavori di William Petty (1664) e Gregory King (1696) per l’Inghilterra, e di Boisguillebert (1695) e Vauban (1707) per la Francia. Le stime riguardano sia lo stock di capitale nazionale sia il flusso annuo di reddito nazionale. In particolare, uno dei primi obiettivi dei loro lavori è calcolare il valore totale dei terreni – la fonte di ricchezza di gran lunga più importante nelle società agrarie dell’epoca – collegando il patrimonio fondiario alla quotazione del prodotto agricolo e della rendita fondiaria.
È interessante notare che gli autori citati perseguono spesso un obiettivo politico ben preciso, perlopiù sotto forma di un progetto di modernizzazione fiscale. Calcolando il reddito nazionale e il patrimonio nazionale del regno, essi intendono mostrare ai propri rispettivi sovrani che è possibile ottenere entrate notevoli con tassi relativamente moderati, purché si consideri l’insieme delle proprietà e delle ricchezze prodotte e si applichino le imposte a tutti quanti i cittadini, in particolare ai proprietari fondiari, aristocratici e non. È un obiettivo evidente nel Projet de dîme royale di Vauban, ma è una finalità altrettanto chiara nei testi di Boisguillebert e di Gregory King (meno in William Petty).
Analoghi nuovi tentativi di valutazione vengono condotti alla fine del XVIII secolo, soprattutto intorno agli anni della Rivoluzione francese, con le stime della Richesse territoriale du royaume de France pubblicate da Lavoisier nel 1791, relative proprio al 1789. E di fatto, il sistema fiscale che viene adottato in quegli anni, fondato in particolare sull’abolizione dei privilegi della nobiltà e su una tassa fondiaria che colpisce il complesso delle proprietà, è ispirato in larga misura dai lavori di cui abbiamo fatto menzione, abbondantemente utilizzati per valutare gli introiti delle nuove imposte.
Ma è soprattutto nel XIX secolo che si moltiplicano le stime del patrimonio nazionale. Dagli anni settanta dell’Ottocento al primo decennio del Novecento, Robert Giffen pubblica regolarmente i suoi calcoli sullo stock del capitale nazionale del Regno Unito, che raffronta con le stime condotte da altri autori nei primi due decenni dell’Ottocento, in particolare da Colquhoun. Giffen si stupisce del notevole grado raggiunto sia dal capitale industriale britannico sia dagli attivi esteri dopo l’epoca delle guerre napoleoniche, incomparabilmente più elevati rispetto all’intero debito pubblico lasciato in eredità dalle guerre medesime.17 Le stime della “ricchezza nazionale” e della “ricchezza privata” pubblicate in Francia nello stesso periodo, prima da Alfred de Foville e poi da Clément Colson, si accompagnano a un analogo stupore per l’accumulazione considerevole di capitale privato nel XIX secolo. La prosperità dei patrimoni privati negli anni 1870-1914 è un dato di fatto che si impone all’attenzione di tutti. Per gli economisti dell’epoca, si tratta di valutarla, quantificarla, e quindi comparare i paesi tra loro (la rivalità franco-inglese non è mai tramontata). Fino alla prima guerra mondiale, le stime dello stock di patrimonio vengono di gran lunga privilegiate rispetto a quelle del flusso di reddito o di prodotto, e sono di fatto molto più numerose, nel Regno Unito come in Francia, in Germania come negli Stati Uniti e negli altri paesi industrializzati. A quell’epoca, essere un economista significa essere prima di tutto in grado di stimare il capitale nazionale del proprio paese: si tratta quasi di un rito iniziatico.
Occorre comunque attendere il periodo tra le due guerre per poter determinare dei bilanci nazionali su base annua. Prima si trattava sempre di stime attinenti ad anni isolati, spesso distanti di almeno una decina d’anni, come il calcolo di Giffen sul capitale nazionale del Regno Unito nel XIX secolo. Negli anni trenta e quaranta del Novecento, grazie all’affinamento delle fonti statistiche primarie, emergono invece le prime classi di reddito nazionale annuo, con dati che risalgono in genere fino ai primi anni del XX secolo o agli ultimi decenni del XIX. Per gli Stati Uniti esse vengono stabilite da Kuznets e Kendrick, per il Regno Unito da Bowley e Clark, per la Francia da Dugé de Bernonville. Finché, all’indomani della seconda guerra mondiale, le amministrazioni economiche e statistiche prendono il posto dei singoli ricercatori e cominciano a dedicarsi alla preparazione e alla pubblicazione di classi annue ufficiali di PIL e di reddito nazionale. Classi che verranno aggiornate fino ai giorni nostri.
Rispetto agli anni anteriori alla prima guerra mondiale, gli obiettivi sono però del tutto cambiati. A partire dagli anni quaranta e cinquanta del Novecento, si tratta innanzitutto di rispondere alle conseguenze traumatiche della crisi degli anni trenta, nel corso della quale i governi non disponevano di stime annue del livello di produzione pienamente affidabili. Bisogna dunque mettere in campo strumenti statistici e politici che consentano di pilotare più da vicino l’attività economica, e di evitare che si ripeta la catastrofe – da qui l’insistenza su classi annue, o persino trimestrali, relative ai flussi di prodotto e di reddito. Le stime dello stock del patrimonio nazionale, così apprezzate fino al 1914, passano in secondo piano – poiché il caos economico e politico degli anni 1914-45 ne ha oscurato il senso. Tra l’altro, il valore degli attivi immobiliari e finanziari è sceso a livelli estremamente bassi, al punto che il capitale privato sembra quasi essere scomparso. Dagli anni cinquanta agli anni settanta, periodo di ricostruzione, si cerca soprattutto di misurare la formidabile crescita del prodotto nei diversi settori industriali.
Finché, a partire dall’ultimo decennio del Novecento e dal primo del XXI secolo, i conti patrimoniali non tornano a occupare il primo posto. Tutti capiscono che è ormai impossibile analizzare il capitalismo patrimoniale di questo inizio di XXI secolo con gli strumenti degli anni cinquanta, sessanta e settanta del Novecento. Per cui gli istituti statistici dei vari paesi sviluppati, in collaborazione con le banche centrali, cominciano a stabilire e pubblicare classi annue coerenti in relazione agli stock di attivi e passivi detenuti da ciascun paese, e non più soltanto in relazione ai flussi di reddito e di prodotto. Sono calcoli patrimoniali ancora imperfetti (per esempio, il capitale naturale e i danni causati all’ambiente sono ancora mal conteggiati), ma, rispetto ai bilanci del dopoguerra, in cui ci si preoccupava unicamente di calcolare il prodotto e la sua crescita illimitata,18 si tratta di un autentico progresso. E sono calcoli ufficiali, che utilizzeremo nel volume per analizzare il patrimonio medio pro capite e il rapporto capitale/reddito attualmente in vigore nei paesi ricchi.
Da questo breve excursus sul bilancio nazionale emerge una conclusione ben chiara. I bilanci nazionali sono una costruzione sociale, in perenne evoluzione, che riflette sempre le preoccupazioni di un’epoca.19 Le cifre che ne scaturiscono non devono essere sopravvalutate. Quando si dice che il reddito nazionale di un dato paese è di 31.000 euro pro capite, è evidente che la cifra, come quelle di ogni statistica economica e sociale, deve essere considerata una stima, una costruzione artificiale, e non una certezza matematica. Si tratta semplicemente della stima migliore di cui si dispone. I conti nazionali sono l’unico tentativo sistematico e coerente di analisi dell’attività economica di un paese. E devono essere considerati uno strumento di analisi, limitato e imperfetto, un modo di comporre e ordinare dati tra loro molto disomogenei. In tutti i paesi sviluppati, i conti nazionali sono attualmente stabiliti dalle amministrazioni economiche e statistiche e dalle banche centrali, le quali raccolgono e raffrontano sia il complesso dei bilanci e dei conti dettagliati delle società, finanziarie e non, sia numerose altre fonti e ricerche statistiche. Non abbiamo alcuna ragione pregiudiziale per pensare che i funzionari preposti non facciano del loro meglio per eliminare le incongruenze tra le diverse fonti e realizzare le migliori stime possibili. A patto, però, di utilizzarle con cautela e senso critico, e di completarle quando esse risultano erronee o insufficienti (per esempio in merito ai paradisi fiscali), dal momento che i conti costituiscono uno strumento indispensabile per valutare le masse globali di reddito e patrimonio.
Vedremo in particolare, nella Parte seconda del volume, come sia possibile – raccogliendo e raffrontando con meticolosità le stime del patrimonio nazionale calcolate da molti autori dal XVIII secolo all’inizio del XX, e collegandole ai conti patrimoniali ufficiali della fine del XX secolo e dell’inizio del XXI – pervenire a un’analisi coerente dell’evoluzione storica del rapporto capitale/reddito. Oltre a questo deficit di prospettiva storica, l’altro grosso limite dei bilanci nazionali ufficiali consiste evidentemente nel fatto che essi tengono presenti, al fine delle loro costruzioni astratte, soltanto le massime e le medie, e non la distribuzione e le disuguaglianze. Per ripartire redditi e patrimoni e studiare le disuguaglianze (argomento della Parte terza del volume), andranno dunque mobilitate altre fonti. Una volta completati i conti, e una volta considerata la storia dei patrimoni e delle disuguaglianze, i bilanci nazionali costituiranno un elemento essenziale delle analisi presentate dal volume.