L’imposta mondiale su capitale: un’utopia utile
L’imposta mondiale sul capitale è un’utopia: è difficile immaginare, a breve scadenza, un accordo tra tutte le nazioni del mondo per deliberare un provvedimento del genere, stabilire un limite d’imposta applicabile a tutte le ricchezze del pianeta e ripartire in misura equilibrata le entrate tra paese e paese. Tuttavia è un’utopia utile, mi sembra, e per numerose ragioni. Innanzitutto, anche se un’istituzione ideale come questa non sarà varata in un futuro prevedibile, è importante averla in mente come punto di riferimento, onde valutare meglio ciò che è consentito e ciò che non è consentito dalle soluzioni alternative. Vedremo infatti come, in mancanza di una soluzione del genere – che nella sua forma più completa esige un grado elevatissimo e sicuramente poco realistico, a medio termine, di cooperazione internazionale, e che tuttavia può benissimo essere attuata, in misura graduale e progressiva, dai paesi che ne condividono la natura (per quanto pochi siano, per esempio a livello europeo), è probabile che prevarranno varie forme di egoismo nazionale. Assisteremo per esempio a varianti differenti di protezionismo e di controllo dei capitali, più o meno coordinate. Queste politiche susciteranno senza dubbio frustrazioni, poiché sono raramente molto efficaci, e a tensioni crescenti tra i paesi. Sono strumenti che, per la verità, rappresentano dei surrogati ben poco soddisfacenti a quella regolamentazione ideale che è rappresentata dall’imposta mondiale sul capitale, la quale ha il merito di proteggere l’apertura economica e la globalizzazione, regolando con efficacia e ripartendo con equità i benefici in modo giusto sia in ciascun paese sia tra paese e paese. Molti respingeranno l’imposta sul capitale come una pericolosa illusione, così come è stata respinta l’imposta sul reddito poco più di un secolo fa. Tuttavia, a ben vedere, la soluzione è assai meno pericolosa delle opzioni alternative.
Questo rifiuto dell’imposta sul capitale sarebbe tanto più deprecabile in quanto è assolutamente possibile arrivare alla sua istituzione procedendo per tappe graduali, per esempio cominciando ad adottarla su scala continentale o regionale, organizzando la cooperazione tra strumenti appunto regionali. In qualche modo, è quello che si comincia a fare con i sistemi di comunicazione automatica di informazioni dei conti bancari attualmente in discussione su scala internazionale, in particolare tra gli Stati Uniti e i paesi dell’Unione Europea. Del resto, già oggi, in quasi tutti i paesi, esistono varie forme, per quanto parziali, di imposta sul capitale, soprattutto in America del Nord e in Europa, e, nel nostro caso, conviene evidentemente partire da queste realtà. Anche le forme di controllo dei capitali esercitate in Cina e in altri paesi emergenti possono costituire una fonte di insegnamento per tutti. Persistono comunque differenze non irrilevanti, da un lato tra queste discussioni e i dispositivi esistenti, e dall’altro a proposito dell’imposta ideale sul capitale. In primo luogo, i programmi di comunicazione automatica delle informazioni bancarie attualmente in discussione sono molto incompleti, in particolare per quanto concerne quali voci attive verrebbero coinvolte, le sanzioni previste, del tutto insufficienti per sperare di ottenere i risultati desiderati (anche nel quadro della nuova legge americana in corso di applicazione, legge che è comunque più avanzata rispetto ai timidi regolamenti europei, ma torneremo più avanti sull’argomento). Si tratta di una materia che si comincia appena adesso ad affrontare, e pare poco probabile che per ora si arrivi a risultati tangibili, finché non verranno comminate sanzioni severe alle banche e soprattutto ai paesi che vivono dell’opacità finanziaria.
In secondo luogo, la questione della trasparenza finanziaria e della comunicazione delle informazioni è inseparabile dalla riflessione sull’imposta ideale sui capitali. Se non si sa bene che cosa si vuol fare della massa delle informazioni, se non si sa bene dove si vuole andare, è probabile che il progetto stenti a decollare. A mio avviso, l’obiettivo deve essere un’imposta annua e progressiva prelevata sul capitale a livello individuale, ossia sul valore netto degli attivi di cui ciascuno ha il controllo. Per le persone più ricche del pianeta, la base d’imposta potrebbe corrispondere alle ricchezze individuali stimate da riviste come Forbes (sempre che riviste del genere abbiano raccolto informazioni esatte: nel qual caso, sarebbe l’occasione propizia per saperlo). Per tutti gli altri, il patrimonio imponibile sarebbe determinato dal valore di mercato di tutti gli attivi finanziari (in particolare depositi e conti bancari, azioni, obbligazioni e partecipazioni di ogni tipo nelle società quotate e non quotate) e non finanziari (in particolare immobiliari) detenuti dalla persona in questione, al netto dei passivi. Per quanto riguarda il tasso da applicare alla base d’imposta, si può pensare per esempio, per dare l’idea, a un tasso uguale allo 0% al di sotto di 1 milione di euro di patrimonio, all’1% tra 1 e 5 milioni di euro e al 2% oltre i 5 milioni di euro. Oppure si può preferire un’imposta sul capitale decisamente più progressiva sulle ricchezze più elevate (per esempio, con un tasso del 5% o del 10% oltre 1 miliardo di euro). Oppure, ancora, si può trovare vantaggioso applicare un tasso minimo sui patrimoni modesti e medi (per esempio lo 0,1% al di sotto dei 200.000 euro, e lo 0,5% tra 200.000 euro e 1 milione di euro).
Sono problemi che verranno discussi più avanti. Per il momento, il punto importante è avere bene in mente che l’imposta sul capitale di cui stiamo parlando qui è un’imposta progressiva e annua sul patrimonio globale: si tratta di tassare di più i patrimoni più rilevanti, e di considerare l’insieme degli attivi, immobiliari, finanziarie e di investimento, senza eccezione. Il che distingue l’imposta sul capitale sostenuta in questo libro dalle imposte sul patrimonio oggi esistenti nei vari paesi, anche se i sistemi in vigore non mancano di risvolti apprezzabili da mantenere. Per esempio, più o meno in tutti in paesi, sono presenti imposte sul patrimonio immobiliare, o sotto forma di property tax nei paesi anglosassoni o di tassa fondiaria in Francia. Si tratta però di imposte che si basano esclusivamente sugli attivi immobiliari (viene del tutto ignorato il patrimonio finanziario; e i mutui, in genere, non possono essere dedotti dal valore dei beni, per cui una persona pesantemente indebitata è tassata allo stesso modo di un’altra che non ha alcun passivo), e il più delle volte su un tasso proporzionale o quasi proporzionale. Il loro merito, nondimeno, è quello di esistere nella maggior parte dei paesi sviluppati, in particolare nei paesi anglosassoni, e di prelevare masse comunque significative (perlopiù tra l’1% e il 2% del reddito nazionale). Inoltre, in determinati paesi (come gli Stati Uniti) esse si fondano su sistemi relativamente sofisticati di dichiarazioni precompilate, con correzioni automatiche dettate dal valore di mercato dei beni in oggetto, che meriterebbero di essere estesi a tutte le componenti attive. In un certo numero di paesi europei (Francia, Svizzera, Spagna, in qualche misura anche Germania e Svezia) esistono già imposte progressive sul patrimonio globale, imposte che, sia pure in modo timido, assomigliano già un po’ di più all’imposta ideale che stiamo qui delineando. Tuttavia, nella pratica, si tratta di imposte spesso azzerate o quasi dai regimi in deroga: molti attivi sono esenti, altre sono valutate su valori catastali o fiscali arbitrari e privi di qualsiasi rapporto con i valori di mercato, per cui in molti paesi sono state soppressi. In ogni caso, come vedremo tra poco, per istituire un’imposta sul capitale adeguata al XXI secolo è sempre opportuno fare riferimento a tutti gli insegnamenti che provengono dalle esperienze precedenti.