Il quadro teorico e concettuale

Prima di proseguire nella lettura del libro, è forse utile dire qualcosa di più sul quadro teorico e concettuale a cui fa riferimento questa ricerca, e sull’itinerario intellettuale che mi ha portato a concepire l’opera.

Precisiamo subito che faccio parte di una generazione che ha compiuto 18 anni nel 1989: anno del bicentenario della Rivoluzione francese, certo, ma anche e soprattutto anno della caduta del Muro di Berlino. Faccio cioè parte di quella generazione che è diventata adulta ascoltando alla radio le notizie sul crollo delle dittature comuniste, e che non ha mai provato la minima nostalgia o indulgenza per quei regimi e per il modello sovietico. Sono vaccinato a vita contro i discorsi anticapitalistici convenzionali e triti, i quali paiono a volte ignorare il fondamentale fallimento storico del socialismo reale, e troppo spesso rifiutano di ricorrere ai mezzi intellettuali adeguati per elaborarlo. Non m’interessa denunciare le disuguaglianze o il capitalismo in quanto tali, tanto più che le disuguaglianze sociali non costituiscono un problema in sé, purché siano giustificate, ossia “fondate sull’utilità comune”, come proclama l’articolo 1 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 (definizione della giustizia sociale imprecisa ma seducente e radicata nella storia, che per il momento adottiamo, per poi tornarvi più avanti). Mi interessa invece cercare di contribuire, per quanto modestamente, a determinare le forme di organizzazione sociale, le istituzioni e le politiche pubbliche più appropriate che consentano di istituire una società giusta, il tutto nel quadro di uno Stato di diritto, le cui regole siano prestabilite, applicabili a tutti e oggetto di dibattito democratico.

È giusto anche segnalare che ho conosciuto il mio sogno americano a 22 anni, dopo il conseguimento del dottorato, grazie all’invito di un’università di Boston. Era la prima volta che mettevo piede negli Stati Uniti e l’esperienza, oltre al piacere per il riconoscimento precoce ottenuto, si è rivelata determinante sotto molti punti di vista. Ecco un paese che ci sa fare con i migranti, che desidera attrarli! Anche se, al tempo stesso, ho coltivato il desiderio di tornare quanto prima in Francia e in Europa, desiderio che ho esaudito a 25 anni. Da allora non ho più lasciato Parigi, salvo per pochi e brevi soggiorni. Una delle ragioni a monte di una simile scelta è strettamente pertinente al discorso che sto svolgendo: gli economisti americani non mi hanno mai convinto pienamente. Certo, si sono dimostrati tutti molto intelligenti, e tanti colleghi d’oltreoceano sono rimasti miei amici. Però mi è successa una cosa strana: mentre ho potuto rendermi conto di conoscere ben poco dei problemi economici mondiali (la mia tesi di dottorato si riduceva a pochi teoremi economici astratti), mi sono sentito attratto dalla professione. Ho subito realizzato che, dai tempi di Kuznets, non era stato portato avanti nessun serio lavoro di organizzazione dei dati storici circa la dinamica delle disuguaglianze (compito al quale mi sono dedicato dopo il mio ritorno in Francia) e che la professione continuava a produrre risultati meramente teorici, senza nemmeno sapere quali fatti spiegare, aspettandosi che io facessi lo stesso.

Diciamolo francamente: la disciplina economica non è mai guarita dalla sindrome infantile della passione per la matematica e per le astrazioni puramente teoriche, sovente molto ideologiche, a scapito della ricerca storica e del raccordo con le altre scienze sociali. Troppo spesso gli economisti si preoccupano di piccoli problemi matematici che interessano solo loro, problemi che, con poco sforzo, li fanno sentire scienziati e che li esonerano dall’impegno di rispondere alle questioni ben più complesse poste dal mondo circostante. Essere economisti universitari in Francia ha un grande vantaggio: gli economisti sono considerati relativamente poco importanti sia dal mondo intellettuale e accademico, sia dalle élite politiche e finanziarie. Il che obbliga gli economisti a rinunciare alla loro diffidenza per le altre discipline e alla loro assurda presunzione di un rigore scientifico superiore, anche in considerazione del fatto che, chi più chi meno, non sanno un bel niente di niente. Questo è anche il fascino della disciplina stessa, e delle scienze sociali in genere: si parte dal basso, a volte molto dal basso, e si spera perciò di conseguire progressi importanti. In Francia, gli economisti sono – credo – un po’ più sensibilizzati che negli Stati Uniti, più motivati nel convincere i colleghi storici o sociologi, e più in generale il mondo esterno, dell’interesse di ciò che fanno (realtà tutt’altro che scontata). A volte, quando insegnavo a Boston, il mio sogno era arrivare a insegnare all’École des Hautes Études en Sciences Sociales, una scuola che ha annoverato grandi nomi, da Lucien Febvre a Fernand Braudel, da Claude Lévi-Strauss a Pierre Bourdieu, da Françoise Héritier a Maurice Godelier, a tanti altri ancora. Devo confessarlo, a rischio di sembrare sciovinista nella mia visione delle scienze sociali? Ammiro molto più studiosi come i precedenti che non Robert Solow, o lo stesso Simon Kuznets – anche se mi dispiace che le scienze sociali abbiano perlopiù cessato d’interessarsi al tema della distribuzione delle ricchezze e delle classi sociali, mentre, fino agli anni settanta e ottanta del Novecento, i problemi relativi a redditi, salari, prezzi e ricchezza figuravano ai primi posti nei programmi di ricerca delle discipline storiche e sociologiche. Sarei davvero felice se gli specialisti e i cultori di tutte le scienze sociali trovassero qualche motivo d’interesse per le ricerche esposte in questo libro, a cominciare da tutti coloro che dicono di “non sapere niente di economia” ma che coltivano spesso opinioni molto ferme sulla disuguaglianza dei redditi e della ricchezza, fatto peraltro molto naturale.

In realtà, l’economia non avrebbe dovuto mai cercare di scindersi dalle altre discipline delle scienze sociali, poiché non può che svilupparsi nel loro ambito. Sappiamo troppo poco delle scienze sociali per fare stupidamente “parte per noi stessi”. Per sperare di accrescere le nostre conoscenze su problemi come la dinamica storica della distribuzione delle ricchezze e la struttura delle classi sociali, è evidente che dobbiamo procedere con pragmatismo, e mettendo in campo metodi e approcci propri agli storici, ai sociologi, ai politologi, oltre che agli economisti. Dobbiamo partire dalle domande di fondo e tentare di rispondervi: i campanilismi e le differenze di appartenenza sono secondari. Questo libro è, credo, sia un libro di storia sia un libro di economia.

Come ho spiegato prima, il mio lavoro è stato inizialmente quello di raccogliere fonti e stabilire fatti e serie storiche sulla distribuzione dei redditi e dei patrimoni. Solo in un secondo tempo faccio appello alla teoria, ai modelli e ai concetti astratti, ma cerco di farlo con misura, ossia solo quando la teoria consente una migliore comprensione dei fenomeni studiati. Per esempio, le nozioni di reddito e di capitale, di tasso di crescita e di tasso di rendimento sono concetti astratti, costruzioni teoriche, e non certezze matematiche. Tenterò comunque di mostrare che essi aiutano ad analizzare in modo più efficace le realtà storiche, purché si adotti uno sguardo critico e lucido in merito alla precisione – approssimativa per natura – con cui è possibile valutarli. Utilizzerò anche alcune equazioni, come la legge α = r × β (secondo la quale la quota di capitale nella composizione del reddito nazionale equivale al prodotto del tasso di rendimento da capitale moltiplicato per il rapporto capitale/reddito), oppure la legge β = s/g (secondo la quale il rapporto capitale/reddito è pari, sul lungo termine, al rapporto tra il tasso di risparmio e il tasso di crescita). Prego il lettore poco ferrato in matematica di non chiudere subito il libro; si tratta di equazioni elementari, che possono essere spiegate in modo semplice e intuitivo, la cui piena comprensione non necessita di alcun bagaglio tecnico particolare. Tenterò in particolare di dimostrare come un quadro teorico minimo come questo aiuti a comprendere meglio cicli storici importanti per tutti.

Il capitale nel XXI secolo
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