Marx: il principio di accumulazione infinita

Quando Marx, nel 1867, ossia esattamente mezzo secolo dopo la pubblicazione dei Principi di Ricardo, pubblica il Libro I del Capitale, le realtà economiche e sociali si sono profondamente modificate: non si tratta più di sapere se l’agricoltura riuscirà a nutrire una popolazione in crescita o se il prezzo della terra salirà alle stelle, bensì di capire la dinamica di un capitalismo industriale in pieno sviluppo.

Il fatto più rilevante dell’epoca è la miseria del proletariato industriale. A dispetto della crescita, o forse in parte per suo stesso effetto, con l’enorme esodo rurale provocato dall’aumento sia della popolazione sia della produttività nell’agricoltura, gli operai si ammassano dentro topaie e bicocche. Le giornate lavorative sono lunghissime, per salari bassissimi. Si va sviluppando una nuova miseria urbana, più visibile, più scioccante, e per certi versi ancor più estrema della miseria rurale dell’ancien régime. Germinale, Oliver Twist o I miserabili non sono nati certamente dall’immaginazione degli scrittori, così come per altro le stesse leggi che proibiscono il lavoro manifatturiero ai minori di 8 anni in Francia nel 1841, o ai minori di 10 anni nelle miniere nel Regno Unito nel 1842. Il Tableau de l’état physique et moral des ouvriers employés dans les manufactures, pubblicato in Francia nel 1840 dal dottor Villermé, ispiratore della timida legislazione del 1841, descrive la medesima sordida realtà descritta da Engels in La situazione della classe operaia in Inghilterra, pubblicato nel 1845.4

Di fatto, tutti i dati storici di cui oggi disponiamo indicano che per registrare una crescita significativa del potere d’acquisto dei salari bisogna attendere la seconda metà se non l’ultimo terzo del XIX secolo. Tra il periodo 1800-10 e quello 1850-60 i salari sono fermi a livelli bassissimi – vicini a quelli del XVIII secolo e dei secoli precedenti – o, in alcuni casi, a livelli addirittura inferiori. Questa lunga fase di stagnazione salariale, riscontrabile sia nel Regno Unito sia in Francia, è tanto più impressionante in quanto il periodo coincide con un’accelerazione della crescita economica. La quota del capitale – profitti industriali, rendita fondiaria, affitti urbani – che concorre alla composizione del reddito nazionale, nella misura in cui è possibile valutarla con le fonti imperfette di cui oggi disponiamo, è destinata a crescere sensibilmente durante la prima metà del XIX secolo.5 Diminuirà, di poco, solo negli ultimi decenni del secolo, quando i salari recupereranno in parte il ritardo a lungo accumulato nella crescita. I dati che abbiamo raccolto indicano comunque che nessuna diminuzione strutturale delle disuguaglianze si produce prima della prima guerra mondiale. Tra il 1870 e il 1914 si assiste se mai a una stabilizzazione delle disuguaglianze, e a un livello alquanto elevato; anzi, per certi versi, a una perpetuazione della spirale senza fine della disuguaglianza con, in particolare, una concentrazione sempre più massiccia dei patrimoni. È molto difficile dire dove avrebbe portato quella curva in assenza delle gravi ripercussioni economiche e politiche prodotte dalla guerra del 1914-18, ripercussioni che, alla luce dell’analisi storica, e con il senno di poi di cui oggi disponiamo, appaiono come le uniche vere cause della riduzione delle disuguaglianze dopo la Rivoluzione industriale.

Fatto sta che la prosperità del capitale e dei profitti industriali, in contrasto con la stagnazione dei redditi da lavoro, è nel decennio tra il 1840 e il 1850 una realtà talmente evidente che tutti ne sono perfettamente consapevoli, anche se nessuno dispone al momento di statistiche nazionali significative. È in questo contesto che si sviluppano i primi movimenti comunisti e socialisti. La prima, urgente domanda è molto semplice: a che cosa serve lo sviluppo dell’industria, a che cosa servono tutte le innovazioni tecniche, tutta quella fatica, tutti quegli esodi, se in capo a mezzo secolo di crescita industriale la situazione delle masse resta sempre così miserabile, e se si è ridotti a proibire il lavoro in fabbrica ai bambini al di sotto degli 8 anni? Il fallimento del sistema economico e politico dominante appare del tutto ovvio. La seconda domanda è altrettanto ovvia: che cosa si può dire dello sviluppo a lungo termine di un tale sistema?

Il compito che Marx si propone è appunto quello di dare una risposta. Nel 1848, alla vigilia della Primavera dei popoli, ha già pubblicato il Manifesto del Partito comunista, testo breve ed efficace che si apre con la famosa frase: “Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del comunismo”6 e termina con la non meno famosa profezia rivoluzionaria: “Lo sviluppo della grande industria ha tolto da sotto i piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa ha fissato il proprio sistema di produzione e di appropriazione. È la borghesia a produrre innanzitutto i suoi stessi becchini. La caduta della borghesia e la vittoria del proletariato sono parimenti inevitabili.”

Marx, nei due decenni successivi, si dedicherà alla stesura del voluminoso trattato che dovrà giustificare la conclusione del Manifesto e porre le fondamenta dell’analisi scientifica del capitalismo e del suo crollo. L’opera resterà incompiuta: il Libro I del Capitale viene pubblicato nel 1867, ma Marx muore nel 1883 senza aver terminato i due volumi successivi, che verranno pubblicati postumi dall’amico Engels, sulla base dei frammenti manoscritti, a tratti oscuri, che Marx ha lasciato.

Come Ricardo, Marx intende incentrare il proprio lavoro sull’analisi delle contraddizioni logiche connaturate al sistema capitalista. Aspira così a distinguersi sia dagli economisti borghesi (che vedono nel mercato un sistema autoregolato, ossia capace di equilibrarsi da solo, senza contraccolpi di rilievo, a somiglianza della “mano invisibile” di Smith e della “legge degli sbocchi” di Say), e dei socialisti utopisti o proudhoniani, i quali, secondo lui, si limitano a denunciare la miseria operaia, senza tuttavia proporre uno studio veramente scientifico dei processi economici in campo.7 Riassumendo, Marx muove dal modello ricardiano del valore del capitale e del principio di rarità, e spinge molto oltre l’analisi della dinamica del capitale stesso, considerando un mondo in cui il capitale è prima di tutto capitale industriale (macchine, attrezzature ecc.) e non terriero, e può dunque, in teoria, accumularsi illimitatamente. Di fatto la sua conclusione di fondo coincide con quello che possiamo chiamare “principio di accumulazione infinita”, vale a dire la tendenza inevitabile del capitale ad accumularsi e concentrarsi su scala illimitata, senza un termine naturale, da cui discende la soluzione apocalittica prevista da Marx: o si arriva a un calo tendenziale del tasso di profitto del capitale (il che manda in tilt il motore dell’accumulazione e può portare i capitalisti a sbranarsi a vicenda) o la quota di capitale del reddito nazionale si accresce indefinitamente (il che porterà i lavoratori, a più o meno breve scadenza, a unirsi e a ribellarsi). In ogni caso, non è ipotizzabile alcuno stabile equilibrio socioeconomico o politico.

Il fosco destino prefigurato da Marx non si è realizzato, così come non si sono realizzate le previsioni di Ricardo. A partire dall’ultimo terzo del XIX secolo, i salari fanno finalmente segnare un lieve progresso: il miglioramento del potere d’acquisto si generalizza, e il fenomeno cambia radicalmente la situazione, anche se le disuguaglianze restano estremamente forti e continuano per certi aspetti ad aggravarsi fino alla prima guerra mondiale. La Rivoluzione comunista ha sì avuto luogo, ma nel paese più arretrato d’Europa, quello in cui la Rivoluzione industriale era stata appena avviata (la Russia), mentre i paesi europei più avanzati hanno tentato altre vie, socialdemocratiche, a tutto beneficio dei loro popoli. Come gli autori a lui precedenti, Marx ha del tutto trascurato l’eventualità di un progresso tecnico durevole e di un costante aumento della produttività, fattore che, come vedremo, consente in una certa misura di equilibrare il processo di accumulazione e di concentrazione del capitale privato. Inoltre Marx, per perfezionare le sue previsioni, non disponeva di dati statistici adeguati. Sicuramente fu anche vittima del fatto di aver definito a priori le proprie conclusioni nel Manifesto del 1848, prima di intraprendere le ricerche in grado di poterle giustificare. Marx scriveva chiaramente in un clima di grande esaltazione politica, che comportava a volte valutazioni sommarie e frettolose, non consentendo di raccordare adeguatamente al discorso teorico fonti di carattere storico sufficientemente complete, attività a cui lui stesso non dedica l’attenzione che avrebbe potuto.8 Inoltre non si è affatto posto il problema dell’organizzazione politica ed economica di una società in cui la proprietà privata del capitale sarebbe stata interamente abolita, problema quanto mai complesso come stanno a dimostrare le drammatiche improvvisazioni in chiave totalitaria dei regimi che vi hanno fatto ricorso.

Vedremo in ogni caso che, malgrado tutti i limiti, l’analisi marxiana mantiene, su parecchi punti, una sua congruenza. In primo luogo, Marx parte da una visione reale (l’inverosimile concentrazione delle ricchezze verificatasi nel corso della Rivoluzione industriale) e tenta di rispondervi con i mezzi di cui dispone: ecco un approccio al quale gli economisti di oggi farebbero bene a ispirarsi. In secondo luogo, e in termini specifici, il principio di accumulazione infinita da cui Marx mette in guardia contiene un’intuizione fondamentale per l’analisi del XXI secolo come del XIX, un’intuizione ancor più inquietante, in qualche modo, del principio di rarità caro a Ricardo. Quando il tasso di crescita della popolazione e della produttività è relativamente debole, i patrimoni accumulati nel passato assumono per loro natura un valore considerevole, potenzialmente smisurato, e destabilizzante per le società interessate. In altri termini, una crescita debole permette di equilibrare solo debolmente il principio marxista di accumulazione infinita: ne risulta uno squilibrio che, se non ha i connotati apocalittici sottolineati da Marx, ha comunque connotati assai inquietanti. L’accumulazione a un determinato punto si blocca, ma questo punto può essere estremamente elevato, e rivelarsi destabilizzante. Vedremo, ad esempio, come la crescita fortissima del valore dei patrimoni privati, calcolato in annualità di reddito nazionale, riscontrabile a partire dagli anni settanta e ottanta nell’insieme dei paesi ricchi, e particolarmente in Europa e in Giappone, discenda direttamente da questa stessa logica.

Il capitale nel XXI secolo
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