L’imposta sul capitale nella storia
In tutte le civiltà, il fatto che il detentore del capitale ottenga senza lavorare una quota sostanziosa del reddito nazionale e che il tasso di rendimento da capitale sia in genere di almeno il 4-5% annuo ha sempre suscitato dure reazioni, spesso indignate, e risposte politiche di diversa natura. Una delle più diffuse è l’interdizione dell’usura, presente in varie forme in quasi tutte le religioni, in particolare nel cristianesimo e nell’islam. Anche i filosofi greci dibattevano con vivacità sul tema dell’interesse, un fattore di arricchimento potenzialmente infinito, dal momento che il tempo non smette mai di trascorrere. È su questo rischio di illimitatezza che pone con insistenza l’accento Aristotele, quando sottolinea che la parola “interesse”, in greco tocos, significa anche “bambino”. Per il filosofo, il denaro non deve generare denaro.32 In un mondo dalla crescita debole, o addirittura infinitesimale, in cui la popolazione e la produzione rimangono praticamente invariate da una generazione all’altra, questo rischio di illimitatezza sembra particolarmente distruttivo.
Il problema è che le risposte formulate in termini di proibizione mancano spesso di coerenza. L’interdizione del prestito a interesse punta in genere a limitare certi tipi d’investimento e certe categorie particolari di attività commerciali o finanziarie giudicate meno lecite e meno degne di altre dalle autorità politiche o religiose in carica, autorità che però evitano di mettere in discussione il rendimento da capitale in generale. Nelle società agrarie europee, le istituzioni cristiane si guardano bene dal contestare la legittimità della rendita fondiaria, di cui sono le prime beneficiarie, e di cui vivono anche i gruppi sociali che della rendita fanno il fondamento della società stessa. La proibizione dell’usura deve innanzitutto essere pensata come una misura di controllo sociale: certe forme di capitale sembrano più inquietanti di altre, perché meno facilmente controllabili. Non s’intende tanto contestare il principio generale secondo cui un capitale può procurare un reddito a chi lo detiene senza che questi abbia bisogno di lavorare. L’idea è se mai quella che occorre diffidare dell’accumulazione infinita: i redditi prodotti dal capitale devono essere impiegati in modo sano, se possibile per finanziare opere buone, certo non per lanciarsi in avventure commerciali e finanziarie che potrebbero allontanare dalla vera fede. Il capitale terriero è, da questo punto di vista, del tutto rassicurante, poiché sembra non poter fare altro che riprodursi in modo identico da un anno all’altro, da un secolo all’altro.33 E con esso, è tutto un ordine sociale e spirituale del mondo che pare immutabile. Prima di diventare la nemica giurata della democrazia, la rendita fondiaria è stata a lungo concepita come il seme di una società equilibrata, almeno per i suoi detentori.
La soluzione suggerita da Karl Marx e da molti pensatori socialisti del XIX secolo, nonché messa in pratica dall’Unione Sovietica nel XX secolo, è molto più radicale, e ha quantomeno il merito della coerenza. Abolendo la proprietà privata di tutti i mezzi di produzione, di tutte le terre, degli immobili e del capitale industriale, finanziario e di investimento, con l’unica eccezione di poche modeste cooperative e di piccoli appezzamenti di terreno individuali, scompare l’intero corpus del rendimento privato del capitale. Il divieto dell’usura è quindi generalizzato: il tasso di profitto, che in Marx misura la quota di produzione di cui si appropria il capitalista, si azzera alla fine, e con esso il tasso di rendimento privato. Azzerando il rendimento da capitale, l’umanità e il lavoratore si liberano finalmente delle loro catene e delle disuguaglianze patrimoniali frutto del passato. Il presente può riprendersi i propri diritti. La disuguaglianza r > g è solo un brutto ricordo, anche perché il comunismo ama la crescita e il progresso tecnico. Il problema, purtroppo, per le popolazioni interessate dalle esperienze totalitarie, è che la proprietà privata e l’economia di mercato non hanno solo la funzione di permettere il dominio a chi detiene il capitale su coloro che non hanno altro che il proprio lavoro: queste istituzioni svolgono anche un ruolo efficace per coordinare i comportamenti di milioni di individui, e non è facile fare completamente a meno di esse. Le catastrofi umane causate dalla pianificazione centralizzata lo dimostrano in modo inequivocabile.
L’imposta sul capitale permette di dare una risposta insieme più pacifica e più efficace all’eterno problema posto dal capitale privato e dal suo rendimento. L’imposta progressiva sul patrimonio individuale è un’istituzione che aiuta l’interesse generale a riprendere il controllo del capitalismo, contando sulle forze della proprietà privata e della concorrenza. Ogni categoria di capitale è tassata allo stesso modo, senza discriminazioni a priori, partendo dal principio che i detentori degli attivi sono in genere meglio attrezzati del potere pubblico per decidere quali investimenti realizzare.34 Se necessario, l’imposta può essere pesantemente progressiva per le maggiori ricchezze, ma sempre nel quadro dello Stato di diritto, dopo un dibattito democratico. Si tratta della risposta più adatta alla disuguaglianza r > g e alla disuguaglianza del rendimento in rapporto al capitale iniziale.35
In questa forma, l’idea dell’imposta sul capitale è un’idea del tutto nuova, adattata al capitalismo patrimoniale globalizzato del XXI secolo. Certo, determinate imposte sul capitale fondiario esistono dalla notte dei tempi. Ma in genere sono imposte proporzionali e a tasso ridotto, tese innanzitutto a garantire il diritto di proprietà, secondo la logica del diritto di registrazione, e certamente non di redistribuzione delle ricchezze. Le Rivoluzioni inglese, americana e francese rientrano in questa logica: i sistemi fiscali adottati non puntano in alcun modo a ridurre le disuguaglianze patrimoniali. Durante la Rivoluzione francese le discussioni attorno all’imposta progressiva sono accesissime, ma alla fine il principio della progressività viene respinto. Va anche sottolineato che le proposte più audaci del tempo appaiono oggi relativamente moderate, in termini di imposizione fiscale.36
Bisogna aspettare il XX secolo e il periodo tra le due guerre per assistere alla rivoluzione dell’imposta progressiva. Ma è un cambiamento radicale che avviene nel caos, e riguarda prima di tutto l’imposta progressiva sul reddito e l’imposta progressiva sulle successioni. Alcuni paesi, tra la fine del XIX e l’inizio del XX, adottano anche un’imposta progressiva annua sul capitale (in particolare in Germania e in Svezia). Ma Stati Uniti, Regno Unito e Francia restano, fino agli anni ottanta del XX secolo, estranei a questa tendenza.37 Inoltre le imposte annue sul capitale adottate in alcuni paesi registrano in genere tassi piuttosto ridotti, senza dubbio perché concepite in un contesto molto diverso da quello di oggi. Soprattutto il loro difetto tecnico originario è che vengono stabilite non già a partire dai valori di mercato dei diversi attivi immobiliari e finanziari, adeguati ogni anno, ma a partire da valori fiscali e catastali aggiornati in modo alquanto irregolare. Sono valori che, con il passare del tempo, hanno finito per perdere ogni legame con i valori di mercato, per cui imposte del genere sono presto risultate poco funzionali e poco utilizzabili: un difetto che si ritrova con i coefficienti base dell’imposta fondiaria in Francia e in molti altri paesi, dopo la crisi inflazionistica del periodo 1914-45.38 Nel caso di un’imposta progressiva sul capitale, il vizio d’origine può risultare letale: il fatto di superare o meno la soglia d’imposta (o di essere in questa o quella fascia di reddito) dipende da considerazioni spesso arbitrarie, come la data dell’ultima revisione dei valori catastali nella città o nel quartiere di residenza. Si tratta, tra l’altro, di imposte sempre più contestate a partire dagli anni sessanta e settanta, in un contesto di forte rialzo dei prezzi immobiliari e dei mercati azionari, e discusse spesso in tribunale (per violazione del principio di uguaglianza in merito all’imposta). Per cui, tra il 1990 e il 2000, in Germania come in Svezia, si è arrivati alla soppressione dell’imposta annua sul capitale: un processo spiegabile più con il carattere arcaico delle imposte stesse, nate nel XIX secolo, che con considerazioni di concorrenza fiscale.39
L’imposta sulla ricchezza oggi applicata in Francia è in qualche modo più moderna: si fonda sui valori di mercato dei vari attivi, rivalutati annualmente. E lo è per il semplice fatto che è stata creata in tempi più recenti: è stata introdotta negli anni ottanta, in un momento in cui non era possibile ignorare che l’inflazione – in particolare sui prezzi dei beni – sarebbe durata a lungo. Ecco come l’andare politicamente controcorrente rispetto al resto del mondo sviluppato possa diventare un vantaggio: a volte ciò consente di essere in anticipo sui tempi.40 Detto questo, se è vero che l’ISF francese ha il merito di fondarsi sui valori di mercato, e dunque di avvicinarsi su questo punto centrale all’imposta ideale sul capitale, è anche vero che se ne discosta per altri aspetti. Come abbiamo già notato, è viziata da varie norme in deroga e ignora la dichiarazione precompilata. La strana imposta sul patrimonio introdotta in Italia nel 2012 mette in luce i limiti che si manifestano quando, in materia fiscale e nel contesto attuale, l’iniziativa viene assunta da un singolo paese. Il caso della Spagna è ugualmente interessante: la raccolta dell’imposta progressiva sui patrimoni, fondata come in Germania e Svezia su valori catastali e fiscali più o meno arbitrari, è stata sospesa tra il 2008 e il 2010 e poi ripresa a partire dal 2011 e dal 2012, in una situazione di gravissima crisi di bilancio, senza però che se ne modificasse la struttura.41 Un’uguale tensione è visibile un po’ ovunque: l’imposta sul capitale appare logicamente necessaria (considerata la prosperità dei patrimoni privati e la stagnazione dei redditi, bisognerebbe essere ciechi, quale che sia la parte politica che governa, per rinunciare a una simile base fiscale), ma quanto mai difficile da realizzare correttamente nell’ambito di un solo paese.
Riassumendo: l’imposta sul capitale è un’idea nuova che deve essere interamente ripensata nel quadro del capitalismo patrimoniale globalizzato del XXI secolo, sia in termini di tasso d’imposta sia nelle modalità pratiche, passando a una logica di scambio automatico delle informazioni bancarie internazionali, di dichiarazioni precompilate e di valori di mercato.