Le regolazioni di sostituzione: protezionismo e controllo dei capitali
Dopo l’imposta sul capitale, punto e basta? Non è questa la mia intenzione. Esistono altre soluzioni e altre modalità in grado di regolare il capitalismo patrimoniale del XXI secolo, peraltro già esplorate in varie parti del mondo. Solo che quei modi di regolamentazione alternativi non mi sembrano abbastanza soddisfacenti come l’imposta sul capitale e, secondo me, talvolta creano più problemi di quanti ne risolvano. Abbiamo già notato come il modo più semplice per un singolo Stato di recuperare un minimo di sovranità economica e finanziaria sia stato il ricorso al protezionismo e al controllo dei capitali. Il protezionismo consente a volte di proteggere utilmente alcuni settori poco sviluppati in un dato paese (il tempo necessario perché le imprese nazionali siano pronte ad affrontare la concorrenza internazionale).42 Ed è anche un’arma indispensabile nei confronti dei paesi che non rispettano le regole (in materia di trasparenza finanziaria, norme sanitarie, rispetto della persona umana ecc.), un’arma di cui sarebbe folle privarsi. Tuttavia il protezionismo, se viene applicato in misura massiccia e permanente, non è di per sé una fonte di prosperità e di creazione di ricchezze. L’esperienza storica suggerisce che un paese che si lanciasse decisamente e stabilmente in tale direzione, annunciando alla popolazione una crescita sostanziosa dei salari e del tenore di vita, andrebbe probabilmente incontro a gravi delusioni. Tra l’altro, il protezionismo non regola affatto la disuguaglianza r > g né la tendenza all’accumulazione e alla concentrazione dei patrimoni in poche mani all’interno del paese considerato.
Il problema del controllo dei capitali si pone in modo diverso. La completa e assoluta liberalizzazione dei flussi di capitale, senza alcun controllo e senza alcuna trasmissione delle informazioni circa gli attivi posseduti dagli uni e dagli altri nei vari paesi (o quasi), è stata la parola d’ordine della maggioranza dei governi dei paesi ricchi a partire dagli anni ottanta e novanta del Novecento. Questo programma è stato promosso dagli organismi internazionali, in particolare dall’OCSE, dalla Banca mondiale e dal FMI, nel nome, come è giusto che sia, della scienza economica più avanzata.43 Ma viene reso operativo, in primo luogo, da governi democraticamente eletti, rispecchia i movimenti di idee prevalenti in un dato periodo della storia, significativamente segnato sia dalla caduta dell’Unione Sovietica sia da una fede illimitata nel capitalismo e nell’autoregolamentazione dei mercati. Dopo la crisi finanziaria del 2008, tutti hanno cominciato seriamente a dubitare della sua efficacia, ed è assai probabile che i paesi ricchi ricorreranno sempre più spesso, nei decenni a venire, a misure di controllo dei capitali. Il mondo emergente ha in qualche modo indicato la strada, in particolare dopo la crisi finanziaria asiatica del 1998, la quale ha convinto una buona parte del pianeta, dall’Indonesia al Brasile passando per la Russia, che i programmi correttivi e altre terapie choc dettate dalla comunità internazionale non erano sempre i più pertinenti, e che era venuto il momento di prendere le distanze. La crisi del 1998 ha incoraggiato anche la costituzione di riserve a volte eccessive, le quali non sono certo il miglior mezzo di regolazione collettiva dell’instabilità economica mondiale, ma almeno permettono ai singoli paesi di fronteggiare le crisi preservando la propria sovranità.