La questione della redistribuzione della rendita petrolifera
Tra gli altri modi di regolamentazione del capitalismo mondiale e delle disuguaglianze che esso promuove, va anche ricordata la speciale problematica posta dalla geografia delle risorse naturali, in particolare dalla rendita petrolifera. Seguendo il tracciato esatto dei confini, che sappiamo avere sovente origini storiche arbitrarie, la disuguaglianza del capitale e del destino tra paese e paese assume a volte proporzioni abnormi. Se il mondo fosse costituito da un’unica comunità democratica internazionale, l’imposta ideale sul capitale non potrebbe non redistribuire anche i benefici della rendita petrolifera. Che è poi ciò che spesso fanno le normative in vigore all’interno di ciascuna nazione, trasformando in proprietà comune una parte delle risorse naturali. Sono leggi che variano naturalmente nel tempo e a seconda dei paesi. Ma il dato importante è che è sempre possibile contare sul fatto che la dialettica democratica ispiri decisioni improntate al buonsenso. Per esempio, se una persona trova domani in giardino una ricchezza superiore a tutti i patrimoni del paese messi insieme, è plausibile che si trovi il modo di interpretare le leggi nel senso di una ragionevole condivisione della suddetta risorsa (o per lo meno lo si può sperare).
Il mondo, però, non è composto da un’unica comunità democratica, e le decisioni riguardanti la possibile redistribuzione delle risorse naturali tra paese e paese vengono prese spesso in modo tutt’altro che pacifico. Tra il 1990 e il 1991, contemporaneamente alla caduta dell’Unione Sovietica, si registra un altro evento fondante del XXI secolo. L’Iraq, paese di 35 milioni di abitanti, decide d’invadere un minuscolo paese vicino, il Kuwait, popolato da appena 1 milione di abitanti, il quale dispone tuttavia di riserve petrolifere pari a quelle dell’Iraq. Il che è certo una conseguenza dei capricci della geografia, ma è anche la conseguenza dei disegni postcoloniali delle compagnie petrolifere occidentali e dei loro governi, i quali trovano più facile commerciare con i paesi senza popolazione (non è del tutto chiaro se questa sia una buona scelta nel lungo termine). Fatto sta che i paesi occidentali hanno immediatamente mandato un contingente di circa 900.000 uomini per restituire ai kuwaitiani il diritto di essere gli unici legittimi proprietari del petrolio (ulteriore prova, se mai ce ne fosse bisogno, che gli Stati possono a volte mobilitare risorse importanti, e far rispettare le decisioni prese). Questo è accaduto nel 1991. E la prima guerra del Golfo è stata seguita da una seconda guerra, nel 2003, questa volta con una coalizione occidentale meno agguerrita – tutti eventi, tra l’altro, che continuano a svolgere un ruolo decisivo nel mondo attuale.
Ora, non è di mia competenza calcolare qui il livello ottimale d’imposta sul capitale petrolifero che dovrebbe esistere in una comunità politica mondiale fondata sulla giustizia e sull’utilità comune, tantomeno in una comunità politica mediorientale. Mi limito solo a osservare che l’ingiustizia della disuguaglianza del capitale raggiunge in quell’area del mondo proporzioni inaudite, tali che quei paesi avrebbero cessato da tempo di esistere senza una protezione militare esterna. Nel 2013 il bilancio totale di cui dispone il ministero egiziano dell’Istruzione e dei Servizi locali per finanziare il complesso di scuole, collegi, licei, università di un paese come l’Egitto, popolato da 85 milioni di abitanti, è inferiore a 5 miliardi di dollari.47 Poche centinaia di chilometri più lontano, i redditi petroliferi raggiungono i 300 miliardi di dollari per l’Arabia Saudita e i suoi 20 milioni di sauditi, e superano i 100 miliardi di dollari per il Qatar e i suoi 300.000 qatariani. Il tutto mentre la comunità internazionale si interroga se valga la pena rinnovare un prestito di pochi miliardi di dollari all’Egitto, o se non sia il caso di aspettare che il paese aumenti, come ha promesso, l’imposta sulle bibite gassate e le sigarette. È certo normale impedire, per quanto è possibile, che le redistribuzioni si facciano attraverso le armi (tanto più che l’intento nel 1990 dell’invasore iracheno sottintendeva quello dell’acquisto di altri armamenti, non quello di costruire scuole). Ma sempre a patto di reperire altri mezzi sotto forma di sanzioni, tasse e aiuti in grado di imporre una distribuzione più equa della rendita petrolifera e di dare ai paesi senza petrolio la possibilità di svilupparsi.