I capricci della tecnologia
Ricapitoliamo. La prima lezione da trarre dalla Parte seconda del volume è la seguente: non esiste alcuna forza naturale in grado di ridurre necessariamente l’importanza del capitale e dei redditi derivanti dal possesso del capitale nel corso della storia. Negli anni del dopoguerra si è cominciato a pensare che il trionfo del capitale umano sul capitale inteso in senso tradizionale, vale a dire il capitale terriero, immobiliare e finanziario, fosse un processo naturale e irreversibile, dovuto forse alla tecnologia e a forze puramente economiche – anche se alcuni economisti facevano già notare che il peso delle forze propriamente politiche restava essenziale. Noi, oggi, non possiamo che confermare il loro punto di vista. Il balzo in avanti verso la razionalità economica e tecnologica non implica per forza un balzo in avanti verso la razionalità democratica e meritocratica. Per un motivo molto semplice: la tecnologia, come il mercato, non conoscono né limite né morale. Il progresso tecnologico ha certo comportato bisogni sempre maggiori in fatto di abilità e di competenze umane, ma ha anche aumentato i bisogni in fatto di edifici e alloggi, uffici, attrezzature di qualsiasi natura, brevetti, per cui il valore totale di tutti questi elementi di capitale non umano – immobiliare, di investimento, industriale, finanziario – ha finito, sul lungo periodo, per crescere velocemente quasi quanto il prodotto e il reddito nazionale. Così come la massa dei redditi necessaria a compensare queste diverse forme di capitale è cresciuta quasi quanto la massa dei redditi da lavoro. Se si vuole davvero fondare un ordine sociale più giusto e razionale, basato sull’utilità comune, non è sufficiente affidarsi ai capricci della tecnologia.
Riassumendo. La crescita moderna, fondata sulla crescita della produttività e sulla diffusione delle conoscenze, ha consentito di evitare l’apocalisse descritta da Marx e di equilibrare il processo di accumulazione del capitale. Ma non ha modificato le strutture profonde del capitale stesso – o quantomeno non ne ha realmente ridotto l’importanza macroeconomica in rapporto al lavoro. È ora nostro compito studiare se si può dire lo stesso per la disuguaglianza della distribuzione dei redditi e dei patrimoni: in quale misura le strutture delle disuguaglianze, rispetto al lavoro e al capitale, si sono davvero trasformate dopo il XIX secolo?
1 Nei grafici 6.1-6.4, gli interessi del debito pubblico, che non fanno parte del reddito nazionale (si tratta di un semplice trasferimento) e che remunerano un capitale che non fa parte del capitale nazionale (poiché il debito pubblico rientra nell’attivo per i detentori privati ma è un passivo per lo Stato), non sono stati presi in considerazione. Se li si includesse, la parte del capitale sarebbe un po’ più elevata, in genere dell’ordine di 1-2 punti (fino a 4-5 punti nei periodi in cui il debito pubblico è particolarmente alto). Per le serie di dati complete, cfr. allegato tecnico.
2 Si può sia attribuire ai lavoratori non salariati lo stesso reddito da lavoro medio che si attribuisce ai salariati, sia attribuire al capitale di investimento utilizzato dai lavoratori non salariati lo stesso rendimento medio che si attribuisce alle altre forme di capitale. Cfr. allegato tecnico.
3 Nei vari paesi ricchi, la quota di imprese individuali è passata da circa il 30-40% del prodotto interno negli anni cinquanta e sessanta del Novecento (nel XIX secolo e all’inizio del XX poteva superare il 50%) a circa il 10% negli anni ottanta e novanta (il che riflette in sostanza il declino del settore dell’agricoltura), per poi stabilizzarsi attorno al 10%, con a volte un lieve recupero fino al 12-15%, a seconda dei vantaggi o degli svantaggi fiscali in vigore. Cfr. allegato tecnico.
4 Le serie di dati rappresentate nei grafici 6.1 e 6.2 sono state stabilite, per quanto concerne il Regno Unito, a partire dalle ricerche storiche di Robert Allen, e, per quanto concerne la Francia, dalle mie personali ricerche. Per tutti i dettagli sulle fonti e le metodologie cfr. allegato tecnico.
5 Cfr. anche i grafici supplementari S6.1-S6.2, nei quali indichiamo, per le quote di capitale nel Regno Unito e in Francia, i limiti inferiori e superiori.
6 Cfr. in particolare Parte terza, cap. 12.
7 Il tasso d’interesse praticato dal debito pubblico nel Regno Unito e in Francia nel XVIII e nel XIX secolo si aggira attorno al 4-5% annuo. A volte può scendere attorno al 3% (come durante la crisi economica della fine del XIX secolo). Mentre raggiunge il 5-6%, o un livello superiore, durante i periodi di forte tensione politica, quando è messa in discussione la credibilità di bilancio dei governi, per esempio nei decenni precedenti la Rivoluzione francese, o durante il periodo rivoluzionario. Cfr. F. Velde, D. Weir, “The Financial Market and Government Debt Policy in France 1746-1793”, in Journal of Economic History, 1992. Cfr. anche K. Béguin, Financier la guerre au XVIIe siècle. La dette publique et les rentiers de l’absolutisme, Seyssel, Camp Vallon, 2012. Per il dettaglio delle classi di reddito, cfr. allegato tecnico.
8 In Francia, nel 2013, il libretto di risparmio A consente di godere di un tasso d’interesse nominale di appena il 2% annuo, ossia un rendimento reale vicino allo 0%.
9 Cfr. allegato tecnico. Nella maggior parte dei paesi le somme depositate sui conti bancari danno luogo a una remunerazione (in Francia è vietato).
10 Per esempio, un tasso d’interesse nominale del 5%, con un’inflazione al 10%, corrisponde a un tasso d’interesse reale del -5%, mentre un tasso d’interesse nominale del 15%, con un’inflazione al 5%, corrisponde a un tasso d’interesse reale del +10%.
11 Gli attivi immobiliari equivalgono da soli a circa la metà di quelli totali, e nell’ambito degli attivi finanziari quelli reali equivalgono in genere a più della metà del totale, spesso a più di tre quarti. Cfr. allegato tecnico.
12 Come abbiamo spiegato nel capitolo precedente, questo approccio finisce comunque per integrare nel tasso di rendimento la plusvalenza strutturale corrispondente alla capitalizzazione dei proventi non distribuiti presenti nel valore delle azioni, il che è un elemento importante del rendimento delle azioni sul lungo periodo.
13 In altri termini, il fatto di far salire l’inflazione dallo 0% al 2%, in un mondo in cui il rendimento del capitale era inizialmente del 4%, non è l’equivalente di una tassa del 50% sul rendimento del capitale per la buona e semplice ragione che il prezzo degli attivi immobiliari e azionari si metterà a sua volta a crescere del 2% annuo, e che solo una piccola parte degli attivi detenuti dalle famiglie – per lo più liquidità e una parte delle attività nominali – pagherà la tassa dell’inflazione. Torneremo sull’argomento nella Parte terza, cap. 12.
14 Cfr. P. Hoffman, G. Postel-Vinay, J.-L. Rosenthal, Priceless Markets: The Political Economy of Credit in Paris 1660-1870, Chicago, University of Chicago Press, 2000.
15 Nel caso estremo di un’elasticità nulla, il rendimento e quindi la quota di capitale scendono a zero, anche quando si registra un lieve aumento del capitale.
16 Nel caso estremo di un’elasticità infinita, il rendimento non cambia, per cui la quota di capitale aumenta con la medesima proporzione del rapporto capitale/reddito.
17 Si può illustrare la funzione di produzione Cobb-Douglas con la seguente formula matematica: Y = F(K,L) = KαL1-α dove Y è la produzione, K il capitale e L il lavoro. Esistono altre forme matematiche che consentono di illustrare il caso in cui l’elasticità di sostituzione è superiore o inferiore a uno. Il caso dell’elasticità infinita corrisponde a una funzione di produzione lineare: il prodotto è dato da Y = F(K,L) = rK + vL. In altri termini, il rendimento da capitale r non dipende in alcun modo dalle quantità di capitale e lavoro in gioco, come del resto il rendimento da lavoro v, il quale non è altro che un tasso dei salari, fisso nei casi rappresentati.
18 Cfr. C. Cobb, P. Douglas, “A Theory of Production”, in American Economic Review, 1928.
19 Secondo i calcoli di Bowley, i redditi da capitale equivalgono per tutto il periodo a circa il 37% del reddito nazionale, e i redditi da lavoro a circa il 63%. Cfr. A. Bowley, The Change in the Distribution of National Income, 1880-1913, Oxford, Clarendon Press, 1920. Le stime di Bowley coincidono con le nostre, per il sottoperiodo indicato. Cfr. allegato tecnico.
20 Cfr. J. Kuczynski, Labour Conditions in Western Europe 1820 to 1935, London, Lawrence & Wishart, 1937. Nello stesso anno Bowley aggiorna e amplia il suo lavoro del 1920: cfr. A. Bowley, Wages and Income in the United Kingdom since 1860, Cambridge, Cambridge University Press, 1937. Cfr. anche J. Kuczynski, Geschichte der Lage der Arbeiter unter dem Kapitalismus, Berlin, Akademie Verlag, 1960-72, 38 voll. I voll. 32, 33 e 34 sono dedicati alla Francia. Per un’analisi critica delle serie di dati sul reddito di Kuczynski, che costituiscono ancora oggi una fonte storica imprescindibile malgrado le lacune, cfr. Piketty, Les hauts revenus en France au XXe siècle, cit., pp. 677-681. Cfr. allegato tecnico.
21 Cfr. F. Brown, “Labour and Wages”, in Economic History Review, 1939.
22 Cfr. M. Keynes, “Relative Movement of Wages and Output”, in Economic Journal, 1939, p. 48. È interessante notare che, all’epoca, i fautori della tesi della stabilità della divisione capitale-lavoro esitano quando devono fissare il livello – che suppongono stabile – della divisione stessa. Nel caso, Keynes insiste sul fatto che la quota di reddito che va al manual labour (categoria difficile da definire esattamente, sul lungo periodo) gli sembra stabile, attorno al 40% del reddito nazionale, negli anni venti e trenta del Novecento.
23 Per il dettaglio bibliografico completo, cfr. allegato tecnico.
24 Cfr. allegato tecnico.
25 Il fenomeno può corrispondere, nella funzione produttiva di Cobb-Douglas, a una crescita dell’esponente 1 - α (e a un conseguente calo di α), o ad analoghe modifiche nelle funzioni produttive più correnti, corrispondenti a elasticità di sostituzione superiori o inferiori a uno. Cfr. allegato tecnico.
26 Cfr. allegato tecnico.
27 Cfr. Bouvier, Furet, Gilet, Le mouvement du profit en France au XIXe siècle, cit.
28 Cfr. Simiand, Le salaire, l’évolution sociale et la monnaie, cit.; Labrousse, Esquisse du mouvement des prix et des revenus en France au XVIIIe siècle, cit. Anche le classi di reddito storiche raccolte da Jeffrey Williamson e colleghi sulla crescita a lunghissimo termine della rendita fondiaria e sullo stato dei salari suggeriscono, nel corso del XVIII secolo e fino all’inizio del XIX, una crescita della quota di rendita fondiaria nella composizione del reddito nazionale. Cfr. allegato tecnico.
29 Cfr. A. Chabert, Essai sur les mouvements des prix et des revenus en France de 1789 à 1820, Paris, Librairie de Médicis, 1945-49, vol. 2. Cfr. anche G. Postel-Vinay, “À la recherche de la révolution économique dans les campagnes (1789-1815)”, in Revue Économique, 1989.
30 Si definisce “valore aggiunto” di un’impresa la differenza tra ciò che le vendite di beni e servizi rendono all’impresa (importo chiamato chiffre d’affaires, volume di affari, nei bilanci francesi, e sales revenue in inglese) e ciò che costano all’impresa gli acquisti da altre imprese (importo chiamato in francese consommation intermédiaire, svalutazione del capitale). Come indica il nome, la somma quantifica il valore che l’impresa ha aggiunto al processo di produzione. Il valore aggiunto permette di pagare i salari, e il valore residuo costituisce per definizione i profitti dell’impresa. Lo studio della divisione capitale-lavoro si limita troppo spesso a quello della divisione profitti-salari, con l’omissione degli affitti.
31 Altrettanto poco chiara era la nozione di crescita permanente e durevole della popolazione a lungo termine. La nozione, per la verità, rimane ancora confusa e sfuggente ai giorni nostri: da qui l’ipotesi generalmente ammessa di una stabilizzazione della popolazione mondiale. Cfr. cap. 2.
32 L’unico caso in cui il rendimento non tende a zero è quello di un’economia infinitamente capitalistica e “robotizzata” a lungo termine (il caso di un’elasticità di sostituzione infinita tra lavoro e capitale, e di un impiego esclusivo di capitale nella produzione asintotica). Cfr. allegato tecnico.
33 I dati fiscali più interessanti sono presentati nell’appendice 10 del Libro I del Capitale. Per un’analisi di alcuni calcoli delle quote di profitto e dei tassi di rendimento a partire dai bilanci delle imprese offerti da Marx, cfr. allegato tecnico. Anche in Salario, prezzo e profitto (1865) Marx fornisce l’esempio dei bilanci di una fabbrica ad alta intensità capitalistica, i cui profitti raggiungono il 50% del valore aggiunto (al pari dei salari). Anche se Marx non lo dice esplicitamente, è il tipo di ripartizione globale che sembra avere in testa per un’economia industriale.
34 Cfr. cap. 1.
35 Alcuni modelli teorici recenti tentano di esplicitare tale intuizione. Cfr. allegato tecnico.
36 Senza contare che certi economisti americani (a cominciare da Modigliani) avanzavano l’idea che il capitale avesse totalmente cambiato natura (derivando ormai dall’accumularsi durante il ciclo di vita), mentre i britannici (a cominciare da Kaldor) continuavano a osservare il patrimonio attraverso il prisma delle successioni, il che era molto meno rassicurante. Torneremo su questo problema cruciale nella Parte terza del volume.