Il rendimento da capitale all’inizio del XXI secolo
Come si determina il rendimento puro del capitale (vale a dire quanto rende annualmente il capitale una volta dedotte le spese di gestione e il tempo passato ad amministrare il proprio portafoglio, sotto tutti i possibili aspetti), e perché sarebbe leggermente diminuito sul lungo periodo, passando più o meno dal 4-5% dell’epoca di Balzac e Austen a circa il 3-4% di oggi?
Prima di cercare di rispondere alla domanda, è bene chiarire un problema importante. Alcuni lettori troveranno forse che il rendimento medio del 3-4% degli anni dieci del XXI secolo sia un valore assai ottimistico, se confrontato con gli scarsi rendimenti ottenuti da loro stessi con le modeste disponibilità. Vanno insomma precisati più punti.
In primo luogo, i livelli indicati nei grafici 6.3 e 6.4 corrispondono a rendimenti lordi, non ancora sottoposti ad alcuna forma d’imposta. In altri termini, si tratta di rendimenti ottenuti in teoria dai detentori del capitale se non esistesse alcuna forma d’imposta sul capitale e sui suoi redditi (per una data quantità di capitale). Nella Parte quarta del volume torneremo in dettaglio sul ruolo svolto da queste imposte in passato e sul ruolo che esse potranno svolgere in futuro, nel quadro dell’esasperata concorrenza fiscale tra gli stati. Per il momento, limitiamoci a notare che nei secoli XVIII e XIX la pressione fiscale è pressoché insignificante, mentre si fa nettamente più elevata nel XX secolo e nel primo decennio del XXI, per cui, sul lungo periodo, il rendimento medio, dopo l’applicazione delle imposte, è sceso a un livello decisamente più basso rispetto a quello registrato prima della loro applicazione. Oggi, in effetti, il livello delle imposte sul capitale e sui suoi redditi può risultare relativamente basso se si applica una giusta strategia di ottimizzazione fiscale (alcuni investitori che sanno rendersi molto convincenti riescono anche a ottenere delle sovvenzioni), ma nella maggioranza dei casi è un livello più che sostanzioso. In particolare, è importante tener presente che esistono anche, e vanno prese in considerazione, altre imposte oltre a quella sul reddito: per esempio, l’imposta fondiaria riduce sensibilmente il rendimento del capitale immobiliare, e l’imposta sulle società esercita un effetto analogo sui redditi da capitale finanziario investito nelle imprese. Solo se il totale di tali imposte fosse soppresso – come forse accadrà un giorno, ma per il momento siamo ancora piuttosto distanti –, i rendimenti da capitale effettivamente percepiti dai loro proprietari raggiungerebbero i livelli indicati nei grafici 6.3 e 6.4. Mettendo assieme tutte le imposte, il tasso medio d’imposta che grava sui redditi da capitale è attualmente, in gran parte dei paesi ricchi, nell’ordine del 30%. Ecco il primo elemento che introduce un divario consistente tra il rendimento economico puro del capitale e il rendimento effettivamente percepito dai soggetti interessati.
Un altro aspetto che va precisato è che questo rendimento puro nell’ordine del 3-4% equivale a una media che nasconde disparità enormi. Per tutti coloro che detengono quale unico capitale un po’ di denaro depositato sul conto in banca, il rendimento è di per sé negativo, poiché le somme in questione non godono di alcun interesse, e vengono ogni anno erose dall’inflazione. I libretti e i conti di risparmio coprono appena l’inflazione.8 Il fatto da sottolineare è che anche se questi risparmiatori sono numericamente moltissimi, ciò che in effetti possiedono complessivamente è in realtà una parte ridottissima. Ricordiamo che nei paesi ricchi il patrimonio si divide attualmente in due metà più o meno uguali (o comparabili): quello immobiliare e quello finanziario. Tra le attività finanziarie, azioni, obbligazioni e investimenti, piani di risparmio e contratti finanziari a lungo termine (tipo assicurazioni sulla vita e fondi pensione) rappresentano la quasi totalità del volume di ricchezza in gioco. Al contrario, le somme detenute sui conti bancari non remunerati equivalgono in genere appena al 10-20% del reddito nazionale, ovvero al 3-4% al massimo del totale dei patrimoni (i quali, rammentiamolo, rappresentano il 500-600% del reddito nazionale). Anche aggiungendo i libretti di risparmio, si arriva appena a superare il 30% del reddito nazionale, vale a dire poco più del 5% della totalità dei patrimoni.9 Il fatto che i conti bancari e i libretti di risparmio consentano di conseguire interessi bassissimi non è evidentemente una cosa da poco per le persone interessate. Ma, dal punto di vista del rendimento medio del capitale, questo fatto riveste tutto sommato un’importanza alquanto limitata.
Dal punto di vista del rendimento medio, è molto più significativo notare che il valore di locazione annuo dell’immobiliare a uso abitativo – la metà dei patrimoni – equivale in genere al 3-4% del valore dei beni. Per esempio, un appartamento da 500.000 euro comporta un affitto tra i 10.000 e i 20.000 euro annui (attorno ai 1500 euro al mese), o – viceversa – permette di economizzare una tale cifra per chi sceglie di viverci direttamente. Lo stesso vale per i patrimoni immobiliari più modesti: un appartamento da 100.000 euro comporta – o evita di dover pagare – un affitto di circa 3000 o 4000 euro annui, o anche più (come abbiamo già notato, il rendimento delle locazioni raggiunge a volte, sui tagli più piccoli, il 5%). I rendimenti ottenuti sugli investimenti finanziari, prevalenti per i patrimoni più elevati, sono ancora più alti. È la somma totale di questi investimenti, immobiliari e finanziari, che insieme equivale alla maggior parte dei patrimoni privati, a trascinare verso l’alto il rendimento medio.