Qual è l’effetto dell’inflazione sulla disuguaglianza dei rendimenti da capitale?
I risultati ottenuti rispetto al rendimento delle dotazioni universitarie ci spingono a precisare il nostro pensiero anche in merito alla nozione di rendimento puro da capitale e agli effetti non ugualitari legati all’inflazione. Come abbiamo già visto nel capitolo 1, dopo gli anni ottanta-novanta del Novecento, nei paesi ricchi, il tasso d’inflazione sembra essersi stabilizzato attorno a un nuovo indicatore – circa il 2% annuo –, che è a un tempo molto più basso dei picchi inflazionistici osservati nel corso del XX secolo e molto più alto dell’inflazione nulla, o quasi, del XIX secolo, fino al 1914. Nei paesi in via di sviluppo, poi, l’inflazione è attualmente ancora più alta che nei paesi ricchi (supera spesso il 5%). Il problema è il seguente: che differenza c’è tra avere un’inflazione al 2% – o al 5% – e avere un’inflazione allo 0%, e quali conseguenze comporta sul rendimento da capitale?
A volte si pensa, a torto, che l’inflazione riduca il rendimento medio del capitale. Ebbene: è falso. Perché, in media, il prezzo del capitale, vale a dire il prezzo delle attività immobiliari e finanziarie, tende a crescere allo stesso ritmo dei prezzi al consumo. Prendiamo un paese in cui lo stock di capitale equivalga a sei annualità di reddito nazionale (β = 6), e in cui la quota di capitale nella composizione del reddito nazionale sia del 30% (α = 30%), ciò che corrisponde a un rendimento medio del 5% (r = 5%). Immaginiamo che questo paese passi da un’inflazione dello 0% a un’inflazione del 2% annuo. Si può davvero pensare che il rendimento medio da capitale passerà dal 5% al 3%? Evidentemente no. A prima vista, se i prezzi al consumo aumentano del 2% annuo, è probabile che i prezzi delle attività aumentino altrettanto, cioè in media del 2% annuo. Dunque non ci sarà, in media, né minusvalenza né plusvalenza, e il rendimento da capitale sarà sempre del 5% annuo. È tuttavia verosimile che l’inflazione modifichi la distribuzione del rendimento medio tra gli individui del paese in questione. Il fatto è che, in pratica, le redistribuzioni indotte dall’inflazione sono sempre complesse, multidimensionali, in gran parte imprevedibili e incontrollabili.
A volte si pensa che l’inflazione sia la prima nemica del rentier, ed è possibile che questo luogo comune spieghi in parte il concetto che le civiltà moderne si sono fatte dell’inflazione. È in parte vero, nel senso che l’inflazione obbliga a prestare un minimo d’attenzione al proprio capitale. In presenza d’inflazione, chi di solito si limita a sedersi su un mucchio di biglietti vedrà il mucchio scendere a vista d’occhio, e finirà in rovina senza che sia nemmeno necessario tassarlo. In tal senso, infatti, l’inflazione è come una tassa sulla ricchezza passiva o, più esattamente, sulla ricchezza non investita. Nondimeno, come abbiamo già notato in più punti del libro, basta investire il patrimonio in attività reali, soprattutto immobiliari o finanziarie, equivalenti a masse ben più importanti della cartamoneta,35 per sottrarsi completamente alla “tassa inflazionistica”. I risultati che abbiamo appena presentato sui rendimenti delle dotazioni universitarie lo confermano in modo chiarissimo. Con tutta evidenza, che l’inflazione sia del 2% anziché dello 0% non costituisce assolutamente un ostacolo al fatto che i patrimoni più importanti ottengano rendimenti reali molto alti.
Si può anche credere che l’inflazione tenda se mai a migliorare la posizione dei patrimoni più elevati in rapporto ai più modesti, nel senso che accresce l’importanza dei gestori specifici e degli intermediari finanziari. Quando si possiedono 10 o 50 milioni di euro non ci si può forse pagare gli stessi gestori di cui si serve Harvard per impiegare le proprie ricchezze, ma si dispone comunque di mezzi sufficienti per ricompensare consulenti finanziari e beneficiare di servizi bancari che aiutino a eludere l’inflazione. Quando invece si possiedono 10.000 o 50.000 euro, le scelte di portafogli proposte dalla propria banca sono assai più limitate: i contatti sono in genere più brevi, e spesso ci si ritrova a investire il profitto delle proprie economie su libretti bancari poco o nulla remunerativi o su libretti di risparmio che compensano a stento gli effetti dell’inflazione. Va anche aggiunto che certe attività comportano da sole effetti di volume, e sono pertanto inaccessibili ai piccoli patrimoni. In sostanza, è importante capire che la disuguaglianza di base nell’accesso agli investimenti più redditizi è una realtà che riguarda la maggior parte della popolazione (e che dunque va ben al di là del caso estremo degli “investimenti alternativi” presi in considerazione per le grandi ricchezze o le grandi dotazioni di capitale). Per esempio, esistono per determinati prodotti finanziari proposti dalle banche dei “ticket d’ingresso” relativamente alti (a volte parecchie centinaia di migliaia di euro), per cui i risparmi modesti devono perlopiù accontentarsi di prodotti meno interessanti (il che gonfia in pari misura i margini disponibili per i maggiori investimenti, e concorre a finanziare la banca stessa).
Questi effetti di volume riguardano anche, e soprattutto, l’immobiliare, in pratica il settore più rilevante e più a portata di mano per la grande maggioranza della popolazione. Il modo più semplice di investire il proprio denaro, per chiunque, è essere proprietario del proprio alloggio. È una soluzione che protegge dall’inflazione (il valore del bene aumenta in genere con lo stesso ritmo dei prezzi al consumo) ed evita di dover pagare un affitto, il che corrisponde a un rendimento dell’ordine del 3-4% annuo. Ma quando si dispone di 10.000 euro o di 50.000 euro, non basta decidere di essere proprietari di un alloggio: bisogna anche averne la possibilità. Ora, in assenza di un contributo iniziale di garanzia, o di un impiego non precario, è solitamente difficile ottenere un mutuo sufficiente. E anche quando si dispone di 100.000 o 200.000 euro, ma si è avuta la cattiva idea di esercitare la propria attività professionale in una grande città e si percepisce un salario che non rientra nei due o tre centili superiori della gerarchia salariale, può essere ugualmente difficile diventare proprietario del proprio appartamento, anche se si è disposti a indebitarsi contraendo mutui di lunga durata e a tassi spesso elevati. La conseguenza è la seguente: chi può contare solo su un piccolo patrimonio iniziale resterà inquilino, e si troverà a dover pagare un affitto consistente (e a beneficiare il proprietario di una rendita altrettanto consistente) per moltissimi anni, a volte per tutta la vita, mentre il suo risparmio depositato in banca è comunque protetto dall’inflazione.
Viceversa, chi può contare su un patrimonio più cospicuo, grazie a un’eredità o a una donazione, o chi dispone di un salario abbastanza elevato, o tutte e due le cose, potrà diventare in breve tempo proprietario del suo alloggio, il che gli consentirà di ottenere un rendimento reale di almeno il 3-4% annuo sul proprio risparmio, e di risparmiare di più grazie all’affitto economizzato. La disuguaglianza di accesso alla proprietà immobiliare determinata dagli effetti di volume è sicuramente sempre esistita36 – e comunque può essere elusa, in teoria, acquistando un appartamento più piccolo di quello di cui si ha bisogno per vivere, per poi affittarlo e reinvestire il denaro ricavato dall’affitto –, ma è stata aggravata, in una certa misura, dall’inflazione moderna: nel XIX secolo, al tempo dell’inflazione nulla, era abbastanza facile, per un piccolo risparmio, ottenere un rendimento reale del 3% o 4%, per esempio acquistando titoli del debito pubblico, mentre oggi un rendimento del genere è spesso inaccessibile per i risparmiatori più modesti.
Riassumiamo. La principale, grave conseguenza dell’inflazione non è quella di ridurre il rendimento medio da capitale, ma di ridistribuirlo in modo disuguale. E anche se gli effetti dell’inflazione sono complessi e multidimensionali, tutto sembra indicare che la redistribuzione indotta avvenga a svantaggio dei piccoli patrimoni e a vantaggio dei grandi, dunque in un senso esattamente opposto a quello auspicabile. Alcuni pensano che un altro effetto dell’inflazione sia la leggera riduzione del rendimento puro medio da capitale, nel senso che essa costringe ciascun risparmiatore a seguire con maggiore attenzione l’investimento dei propri averi. Diremmo, in proposito, che il cambiamento storico intervenuto (rispetto al XIX secolo) si possa paragonare all’aumento sul lungo periodo del tasso di svalutazione del capitale, che ha costretto i risparmiatori a prendere decisioni sempre più ravvicinate nel tempo in fatto di investimenti e di collocazioni delle proprie attività.37 In entrambi i casi, per ottenere un dato rendimento, occorre faticare più oggi di una volta, poiché il capitale è diventato più “dinamico”. E il tutto dà l’impressione di essere un modo comunque poco efficace, oltre che indiretto, di combattere la rendita. Così come tutto sembra indicare che il leggero calo del rendimento puro medio da capitale indotto dall’inflazione sia molto meno rilevante dell’aumento della disuguaglianza del rendimento stesso e, in particolare, non danneggi affatto i rendimenti più elevati. L’inflazione non pone termine alla rendita: anzi, contribuisce di sicuro a rafforzare la disuguaglianza della distribuzione del capitale.
Intendiamoci bene: non si tratta di proporre, qui e ora, il ritorno del franco-oro e dell’inflazione zero. A determinate condizioni, l’inflazione può comportare delle virtù, anche se meno vistose di quanto a volte si pensi. Torneremo sull’argomento quando ricorderemo il ruolo delle banche centrali e dell’immissione di denaro liquido, soprattutto in situazioni di panico finanziario e di crisi del debito pubblico. Possono esistere modi diversi dall’inflazione zero e dalla rendita di Stato del XIX secolo perché anche i ceti più modesti possano accedere a un risparmio vantaggioso. L’importante è capire fin d’ora che l’inflazione si rivela uno strumento grossolano, o controproducente, quando il fine desiderato è quello di evitare il ritorno di una società di rentiers, e più in generale quello di ridurre le disuguaglianze patrimoniali. L’imposta progressiva sul capitale ci sembra una soluzione molto più adatta, sia per ragioni di trasparenza democratica sia per la sua effettiva efficacia.