La società dei piccoli rentiers

Torniamo al mondo d’oggi, e più esattamente alla Francia di questi ultimi anni. Secondo le nostre stime, per le generazioni nate a partire dagli anni settanta-ottanta del Novecento l’eredità equivarrà a quasi un quarto delle risorse totali – frutto sia dell’eredità sia del lavoro – di cui disporranno nel corso della loro vita. In termini di masse globali in gioco, l’eredità ha dunque già praticamente riacquistato l’importanza che aveva per le generazioni del XIX secolo (cfr. grafico 11.9). Dobbiamo anche precisare che si tratta di previsioni corrispondenti allo scenario principale descritto in precedenza: se si presentassero le condizioni dello scenario alternativo (bassa crescita, crescita del rendimento netto da capitale), l’eredità potrebbe equivalere, per le generazioni del XXI secolo, a poco più di un terzo, vale a dire a quasi quattro decimi, delle risorse.52

Il fatto che l’eredità abbia riacquistato, in termini di massa globale, la stessa importanza di un tempo, non vuol dire però che svolga lo stesso ruolo sociale di una volta. Come abbiamo già notato, la fortissima deconcentrazione della proprietà (la quota del centile superiore è stata praticamente divisa per tre, passando dal 60% degli anni dieci del Novecento al 20% o poco più di oggi) e l’affermazione di una classe media patrimoniale implicano che oggi le grosse eredità siano numericamente molto inferiori a quelle del XIX secolo o della belle époque. In concreto, le doti da 500.000 franchi di papà Goriot e César Birotteau volevano munire le figlie, assicurando loro una rendita annua di 25.000 franchi (circa cinquanta volte il reddito medio pro capite dell’epoca, 500 franchi), equivarrebbero oggi a un’eredità di circa 30 milioni di euro e assicurerebbero una massa di interessi, dividendi e rendite immobiliari dell’ordine di 1,5 milioni di euro l’anno (cinquanta volte il reddito medio annuo pro capite, 30.000 euro53). Certo, esistono ancora eredità del genere, e ne esistono anche di più consistenti, ma sono molto meno numerose che nel XIX secolo, mentre la massa globale dei patrimoni e delle eredità – quella sì – ha praticamente ritrovato la medesima intensità di un tempo.

Oggi, in ogni caso, nessuno costruirebbe un romanzo su un patrimonio di 30 milioni di euro, come facevano Balzac, Jane Austen o Henry James. Dopo che l’inflazione ha eroso tutti i vecchi parametri, dalla letteratura non sono solo scomparsi i riferimenti espliciti alle masse di denaro, sono scomparsi anche i rentiers e, con essi, l’intera rappresentazione collettiva della disuguaglianza, che pure si è mantenuta intatta. Nella letteratura e nella fiction contemporanee, le disuguaglianze tra gruppi sociali compaiono unicamente sotto forma di disparità in rapporto al lavoro, ai salari, alle qualifiche professionali. La società strutturata dalla gerarchia dei patrimoni è stata sostituita da una società strutturata quasi per intero dalla gerarchia del lavoro e del capitale umano. Per esempio, stupisce il fatto che non poche serie televisive americane dei primi anni del XXI secolo mettano in scena protagonisti e protagoniste provvisti di lauree e di specializzazioni d’alto livello: per curare malattie gravi (Dr. House), risolvere enigmi polizieschi (Bones) o anche per fare i presidenti degli Stati Uniti (West Wing), è meglio avere in tasca qualche dottorato o magari aver vinto un premio Nobel. Non è scorretto avvertire in alcune di queste serie un inno alla sacrosanta disuguaglianza, basata sul merito, sul titolo di studio e sull’utilità pubblica delle élite. Si può tuttavia notare come produzioni televisive più recenti mettano a volte in scena una disuguaglianza più inquietante, e più spiccatamente patrimoniale. In Damages compaiono terribili magnati che hanno frodato i loro salariati di centinaia di milioni di euro, le cui mogli, ancor più egoiste dei mariti, intendono divorziare tenendo per sé la miniera d’oro, piscina compresa. Nella terza stagione di Damages, ispirata all’affaire Madoff, si vedono i figli del finanziere truffatore fare di tutto per mantenere il controllo delle attività del padre, nascoste ad Antigua, nei Caraibi, in modo da preservare il proprio futuro tenore di vita.54 Anche in Dirty Sexy Money si vedono giovani eredi debosciati, ben poco dotati di meriti e virtù, vivere spudoratamente del patrimonio di famiglia. Si tratta però di casi eccezionali. In particolare, il fatto di vivere bene grazie a un patrimonio accumulato in passato è quasi sempre visto come qualcosa di negativo, di infamante, mentre in Jane Austen o Balzac è la cosa più naturale del mondo, per quel tanto o poco di sentimento che ancora sopravvive nel cuore dei loro personaggi.

La grande trasformazione dell’immaginario collettivo della disuguaglianza è in parte giustificata, ma si regge su non pochi malintesi. Innanzitutto, è del tutto evidente che il titolo di studio ricopre oggi un ruolo ben più importante che nel XVIII secolo (in un mondo in cui tutti sono diplomati o laureati, non conviene restare indietro: tutti hanno interesse a compiere un minimo di sforzo per procurarsi una specializzazione, anche coloro che ereditano un capitale immobiliare o finanziario rilevante, tanto più che l’eredità arriva spesso un po’ troppo tardi per i gusti degli ereditieri), anche se ciò non significa che la società sia diventata più meritocratica. E soprattutto non vuol dire che la quota di reddito nazionale riservata al lavoro sia effettivamente aumentata (abbiamo visto che l’aumento è quasi nullo), così come non vuol dire che ciascuno possa godere delle medesime opportunità per acquisire i vari livelli di competenza: in larga misura, le disuguaglianze in fatto di competenze si sono semplicemente spostate verso l’alto, e niente sta a indicare che la mobilità intergenerazionale in materia di formazione sia davvero cresciuta.55 Nondimeno, la trasmissione di un capitale umano è meno automatica e meccanica di quella di un capitale immobiliare e finanziario (chi eredita deve mostrare un minimo di sforzo, di forza di volontà): da qui, la convinzione largamente diffusa – e in parte giustificata – che la fine dell’eredità avrebbe favorito l’affermazione di una società un po’ più giusta.

Il principale malinteso è secondo me il seguente. La fine dell’eredità non c’è stata affatto: è cambiata solo la distribuzione del capitale, il che è diverso. Nella Francia di oggi esistono sì meno eredità – le eredità da 30 milioni di euro, o anche da 10 o 5 milioni di euro, sono meno numerose – rispetto al XIX secolo. Ma, se si considera che la massa globale delle eredità è tornata più o meno al livello iniziale, si può tranquillamente affermare che esistono molte più eredità medie e medio-grandi: diciamo attorno ai 200.000-500.000 euro o 1-2 milioni di euro. Ora, eredità simili, pur essendo del tutto insufficienti perché si possa rinunciare a qualsiasi prospettiva professionale e scegliere di vivere di rendita, equivalgono comunque a somme notevolissime, soprattutto se confrontate con quanto guadagna una buona parte della popolazione dopo un’intera vita di lavoro. In altri termini, siamo passati da una società con un piccolo numero di grossi rentiers a una società con un numero molto più elevato di rentiers meno danarosi: una società di piccoli rentiers, per così dire.

L’indicatore che mi pare più pertinente per raffigurare uno sviluppo del genere è tracciato nel grafico 11.11. Si tratta della percentuale di persone che nel quadro di ogni generazione ricevono in eredità (successioni e donazioni) somme superiori a quanto il 50% meno pagato guadagna come reddito da lavoro nel corso di una vita. Questa somma cresce con il succedersi delle generazioni: attualmente il salario medio di quel 50% che occupa la fascia più bassa dei salari è dell’ordine di 15.000 euro l’anno, circa 750.000 euro per cinquant’anni di lavoro (pensione compresa): grosso modo quanto procura una vita vissuta quasi per intero percependo un salario minimo. Ebbene, nel XIX secolo circa il 10% di ciascuna generazione ereditava importi superiori a tale somma. Dopodiché la percentuale è scesa a poco più del 2% per le generazioni nate negli anni dieci-venti del Novecento, e al 4-5% per quelle nate tra gli anni trenta e cinquanta. Ma, secondo le nostre stime, la percentuale è già risalita a circa il 12% per le generazioni nate negli anni settanta-ottanta, e potrebbe raggiungere o superare il 15% per le generazioni nate negli anni dieci-venti del XXI secolo. In altri termini, quasi un sesto di ciascuna generazione godrà di un’eredità superiore a quanto guadagna la metà della popolazione con il lavoro di un’intera vita (in gran parte, la stessa metà che in pratica non riceve alcuna eredità56). Certo nulla impedirà al sesto in questione di acquisire titoli di studio e di lavorare, nonché di guadagnare in genere con il lavoro più di quanto guadagni la metà meno pagata. Ma si tratta in ogni caso di una forma di disuguaglianza assai allarmante, che sta per raggiungere un’ampiezza mai vista nella storia, molto difficile da rappresentare in letteratura e da correggere in politica, perché si tratta di una disuguaglianza comune, che contrappone tra loro ampi segmenti di popolazione, e non un’élite e il resto della società.

Grafico 11.11.
Qual è la percentuale di generazione che riceve in eredità l’equivalente di una vita di lavoro?

Nell’ambito delle generazioni nate verso il 1970-80, il 12-14% delle persone riceve in eredità l’equivalente dei redditi da lavoro ricevuti dal 50% meno pagato nel corso della vita.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.
Il capitale nel XXI secolo
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