Classi popolari, classi medie, classi superiori
Precisiamo, in proposito, che le denominazioni “classi popolari” (il 50%), “classi medie” (il 40% intermedio, compreso tra il 50% delle “classi popolari” e il 10% delle “classi superiori”) e “classi superiori”, utilizzate nelle tabelle 7.1-7.3, sono ovviamente arbitrarie e discutibili. Le abbiamo introdotte a titolo puramente illustrativo e indicativo, per dare un’idea; ma i termini impiegati, in realtà, non rivestono praticamente alcun ruolo nella nostra analisi, e avremmo benissimo potuto chiamare “classe A”, “classe B” e “classe C” i gruppi sociali in oggetto. Anche se, nell’ambito del dibattito pubblico, la terminologia ha in genere un notevole peso: il modo in cui essa viene brandita come un piccone, dagli uni come dagli altri, rispecchia specifiche prese di posizione, implicite o esplicite che siano, in materia di giustificazione e legittimazione dei livelli di reddito e dei patrimoni, da parte di questo o quel gruppo.
Per esempio, alcuni economisti usano l’espressione “classi medie” in modo molto estensivo, per designare persone che si collocano nettamente all’interno del decile superiore della gerarchia sociale (il 10%) oppure molto vicino al centile superiore (l’1%). In genere, l’obiettivo che viene perseguito è insistere sul fatto che queste persone, sebbene dispongano di risorse sensibilmente superiori alla media corrente nella società considerata, non sono tuttavia molto distanti dalla media stessa: l’obiettivo è sottolineare che tali persone non sono poi così ricche, e che perciò meritano ampiamente la clemenza delle autorità pubbliche e soprattutto del fisco.
Altri economisti, a volte i medesimi, rifiutano completamente la nozione di “classe media”, e preferiscono rappresentare la struttura sociale come un qualcosa che contrappone una stragrande maggioranza di “classi popolari e medie” (il “popolo”) a un’infima minoranza di “classi superiori” (le “élite”). Ebbene, una griglia del genere può essere valida solo per descrivere determinate società o, forse meglio, per analizzare determinati contesti politici e storici in determinate società. Per esempio, nella Francia del 1789, l’aristocrazia rappresentava, secondo le stime fatte, tra l’1% e il 2% della popolazione, il clero meno dell’1% e il Terzo Stato – ovvero tutto il popolo, dai contadini alla borghesia, nel quadro del sistema politico vigente sotto l’ancien régime – più del 97%.
Il nostro compito, qui, non è quello di aggiornare il dizionario e il linguaggio. In fatto di denominazioni o locuzioni, hanno tutti ragione e hanno tutti torto. Ciascuno ha i suoi buoni motivi per usare la terminologia che usa, e sbaglia a contestare quella impiegata dagli altri. Il modo in cui noi definiamo la “classe media” (il 40% che sta “nel mezzo”) è assolutamente discutibile, poiché, teoricamente, tutte le persone che includiamo in questo gruppo hanno in realtà redditi (o patrimoni) superiori alla mediana della società considerata.7 Si potrebbe anche decidere di suddividere la società in tre terzi, e denominare “classe media” il terzo che si colloca effettivamente a metà. Tuttavia ci sembra che la nostra definizione corrisponda meglio all’uso corrente: l’espressione “classe media” è in genere impiegata per designare persone che se la cavano piuttosto bene rispetto alla massa del popolo, pur restando molto lontane dalle vere élite. In ogni caso è tutto quanto molto discutibile, e non è nostra intenzione assumere, in questa sede, una posizione dogmatica su una questione tanto delicata, dal punto di vista sia politico sia linguistico.
Il problema è che qualsiasi rappresentazione della disuguaglianza fondata su un piccolo numero di categorie non può che essere schematica e parziale, poiché la realtà sociale soggiacente è comunque quella di una ripartizione continua. A tutti i livelli di reddito e di patrimonio, esiste pur sempre quel certo numero di persone in carne e ossa le cui caratteristiche e la cui importanza numerica variano lentamente e gradualmente con il variare del tipo di distribuzione presente nella società considerata. Non c’è mai una frattura netta, una discontinuità, tra le diverse classi sociali, tra il mondo del “popolo” e quello delle “élite”. Ecco perché la nostra analisi è fondata per intero su dati statistici a base di decili (il 10% più ricco, il 40% intermedio, il 50% più povero), i quali hanno anche il merito di definirsi esattamente e allo stesso modo nelle diverse società, e ci aiutano quindi a stabilire dei raffronti rigorosi e obiettivi nel tempo e nello spazio, senza per questo voler negare la complessità specifica di ciascuna società e soprattutto il carattere sostanzialmente continuo della disuguaglianza sociale.