Quali fattori aiutano la convergenza tra paesi?
In linea di principio, il meccanismo grazie al quale i paesi ricchi possiedono una parte dei paesi poveri può avere, in termini di convergenza, effetti virtuosi. Se i paesi ricchi abbondano di risparmio e di capitali, al punto che non serve più a nulla costruire un immobile supplementare o installare un macchinario in più nelle loro fabbriche (nel qual caso si dice che la “produttività marginale” del capitale – vale a dire il prodotto supplementare assicurato da una nuova unità di capitale, “a margine” – è pressoché irrilevante), può essere collettivamente vantaggioso che investano una parte del loro risparmio nei paesi poveri. In questo modo, i paesi ricchi – o quantomeno quelli che detengono più capitale – otterranno un tasso di rendimento migliore per il loro investimento, e i paesi poveri potranno recuperare in parte il loro ritardo di produttività. Secondo l’economia classica, il meccanismo, fondato sulla libera circolazione dei capitali e il livellamento della produttività marginale del capitale a livello mondiale, è presumibilmente, in virtù delle forze del mercato e della concorrenza, alla base del processo di convergenza tra paese e paese e di riduzione tendenziale delle disuguaglianze nel corso della storia.
Si tratta in realtà di una teoria ottimistica che ha due importanti difetti. In primo luogo, da un punto di vista strettamente logico, il meccanismo non garantisce in alcun modo la convergenza dei redditi pro capite a livello mondiale. Tutt’al più, può promuovere una convergenza del prodotto pro capite – a condizione, però, di una presunta perfetta mobilità del capitale, e soprattutto di un’equalizzazione completa dei livelli di qualificazione della manodopera e del capitale umano tra paese e paese, il che non è cosa da poco. In ogni caso, l’eventuale convergenza dei prodotti non implica in alcun modo quella dei redditi. Una volta realizzati gli investimenti, è possibilissimo che i paesi ricchi continuino a possedere i paesi poveri in misura permanente, anche in proporzioni massicce, per cui il reddito nazionale dei primi sarà eternamente più elevato rispetto a quello dei secondi, i quali continueranno a versare in perpetuo ai loro proprietari una quota importante di ciò che producono (come sta facendo l’Africa da decenni). Per determinare con quale ampiezza questo tipo di situazione possa prodursi, vedremo come vanno comparati, in particolare, il tasso di rendimento del capitale che i paesi poveri devono rimborsare ai paesi ricchi e il tasso di crescita degli uni e degli altri. E, per procedere oltre, dovremo innanzitutto capire bene la dinamica del rapporto capitale/reddito a livello di ogni singolo paese.
In secondo luogo, da un punto di vista storico, il meccanismo basato sulla mobilità del capitale non sembra il più adeguato, o quantomeno il più accreditato, a promuovere la convergenza tra paese e paese. Nessuno dei paesi asiatici che hanno in qualche misura agganciato i paesi più sviluppati, ieri il Giappone o la Corea o Taiwan, oggi la Cina, ha beneficiato di massicci investimenti stranieri. In sostanza, questi paesi si sono finanziati da soli gli investimenti in capitale fisico di cui avevano bisogno, e soprattutto gli investimenti in capitale umano – la crescita del livello di cultura e di formazione –, grazie ai quali, come dimostrano tutte le attuali ricerche, si spiega di fatto la crescita economica a lungo termine.35 Al contrario, i paesi posseduti da altri, come nel caso dell’epoca coloniale o dell’Africa di oggi, sono stati più penalizzati, in particolare da competenze ben poco sviluppate e da un’instabilità politica cronica.
Non è vietato pensare che tale instabilità sia in parte spiegabile con la seguente ragione: quando un paese è perlopiù in mano a proprietari stranieri, la richiesta di un loro esproprio da parte della comunità è ricorrente, quasi irrefrenabile. Altri attori della scena politica rispondono che la protezione incondizionata dei diritti di proprietà iniziali è l’unica risorsa per l’investimento e lo sviluppo. Il paese si trova così preso nella morsa di un’interminabile alternanza di governi rivoluzionari (dall’efficacia spesso ridotta per quanto riguarda il miglioramento effettivo delle condizioni di vita della popolazione) e di governi che proteggono i proprietari in campo e aprono così la strada a nuove rivoluzioni o colpi di Stato successivi. La disuguaglianza della proprietà da capitale è già una cosa difficile da accettare e da organizzare in modo pacifico nel quadro di una comunità nazionale. Su scala internazionale, diventa praticamente una cosa impossibile (salvo appunto immaginare un rapporto di dominio politico di tipo coloniale).
Di fatto, l’introduzione di capitale internazionale non ha in sé nulla di negativo: l’autarchia non è mai stata fonte di prosperità. I paesi asiatici hanno con tutta evidenza beneficiato dell’apertura ai capitali mondiali per colmare parte del loro ritardo. Ma hanno tratto soprattutto vantaggio dall’apertura dei mercati di beni e servizi e dall’ingresso ad alto livello nel commercio internazionale; molto meno dalla libera circolazione dei capitali. La Cina, per esempio, continua a praticare il controllo dei capitali – non è possibile investirvi liberamente –, ma l’intervento non frena in alcun modo l’accumulazione di capitale, perché è più che sufficiente il risparmio interno. Il Giappone, la Corea e Taiwan hanno finanziato gli investimenti con il loro stesso risparmio. Gli studi disponibili mostrano inoltre che la stragrande maggioranza dei guadagni prodotti dall’apertura degli scambi commerciali proviene dalla diffusione delle conoscenze e dai vantaggi di produttività dinamica procurati dall’apertura stessa, non dai guadagni statici legati alle competenze, i quali appaiono relativamente modesti.36
Riassumendo, l’esperienza storica suggerisce che il principale meccanismo di convergenza tra paese e paese è la diffusione delle conoscenze, a livello internazionale e a livello nazionale. In altri termini, i più poveri recuperano sui più ricchi nella misura in cui attingono il medesimo livello di sapere tecnologico, di qualificazioni, di cultura, evitando di diventare proprietà dei paesi più ricchi. Questo processo di diffusione delle conoscenze non cade dal cielo: viene spesso accelerato dall’apertura internazionale e commerciale (l’autarchia non favorisce la diffusione tecnologica) e dipende soprattutto dalla capacità di ciascun paese di mobilitare finanziamenti e istituzioni che permettano di investire in misura massiccia nella formazione delle persone, sempre garantendo un quadro legale condivisibile per i diversi attori. Ciò è dunque intimamente legato al processo di costruzione di un potere pubblico legittimo ed efficiente. È questa, in rapida sintesi, la lezione di fondo che scaturisce dall’esame dell’evoluzione storica della crescita mondiale e delle disuguaglianze tra paese e paese.
1 Cfr. “South African Police Open Fire on Striking Miners”, in New York Times, 17 agosto 2012.
2 Cfr. il comunicato ufficiale della compagnia: Lonmin Seeks Sustainable Peace at Marikana, 25 agosto 2012, in www.lonmin.com. Secondo il documento, il salario di base dei minatori prima del conflitto era di 5405 rand al mese, e l’aumento accordato è di 750 rand al mese (1 rand sudafricano = 0,1 euro circa). Le cifre indicate sembrano congrue con quelle riferite dagli scioperanti e riprese dalla stampa.
3 La ripartizione “fattoriale” viene a volte denominata “funzionale” o “macroeconomica”, e la ripartizione “individuale” viene a volte denominata “personale” o “microeconomica”. In realtà i due aspetti della ripartizione mettono in campo meccanismi insieme microeconomici (da analizzare a livello di imprese o di agenti individuali) e macroeconomici (possibili da comprendere solo a livello di economie nazionali o di economia mondiale).
4 Un milione di euro l’anno (l’equivalente del salario di circa duecento minatori), secondo gli scioperanti. Sul sito della miniera non compare purtroppo alcuna informazione in proposito.
5 Il 65-70% per i salari e altri redditi da lavoro, e il 30-35% per profitti, affitti e altri redditi da capitale.
6 Il reddito nazionale viene anche chiamato “prodotto nazionale netto” (in opposizione al “prodotto nazionale lordo”, PNL, che include la svalutazione del capitale). Noi useremo l’espressione “reddito nazionale”, più semplice e intuitiva. I redditi netti dall’estero sono dati dalla differenza tra redditi dall’estero e redditi versati all’estero. I flussi incrociati riguardano principalmente i redditi da capitale, ma includono anche i redditi da lavoro e i trasferimenti unilaterali (per esempio degli immigrati verso i paesi d’origine). Cfr. allegato tecnico.
7 Il reddito mondiale si ottiene naturalmente sommando il reddito nazionale dei diversi paesi, mentre il prodotto mondiale si ottiene sommando il prodotto interno dei diversi paesi.
8 In inglese si parla di national wealth o di national capital. Eviteremo di utilizzare l’espressione “ricchezza nazionale” perché in francese la parola “ricchezza” – ancor più del termine inglese wealth – viene spesso impiegata in modo ambivalente, a volte per designare un flusso (le ricchezze prodotte in un anno), a volte uno stock (la ricchezza come patrimonio totale posseduto in un determinato momento). Nel XVIII e nel XIX secolo gli autori francesi parlavano spesso di “ricchezza nazionale” e gli autori inglesi di national estate (ricordiamo che il termine estate designa in inglese il complesso del patrimonio, comprendendovi sia i beni immobili – real estate – sia gli altri beni – personal estate). Ma si tratta sempre e comunque del medesimo concetto.
9 Impieghiamo essenzialmente le stesse definizioni e le stesse categorie di attivo e passivo fissate dalle norme internazionali di bilancio nazionale attualmente in vigore, salvo alcune lievi differenze che precisiamo e discutiamo nell’allegato tecnico.
10 Per tutte le cifre dettagliate paese per paese, cfr. le tabelle disponibili nell’allegato tecnico.
11 In pratica, il reddito intermedio (ossia il reddito al di sotto del quale si trova la metà della popolazione) è in genere del 20-30% più basso del reddito medio. Questo perché i livelli alti della distribuzione sono molto più “stirati” di quelli medi e bassi, cosa che porta la media (e non la mediana) verso l’alto. Precisiamo anche che il reddito nazionale pro capite corrisponde a un concetto di reddito medio che non tiene conto di imposte e passaggi di denaro. In pratica, gli abitanti dei paesi ricchi versano tra un terzo e la metà del reddito nazionale in imposte, prelievi e tasse varie, per finanziare servizi pubblici, infrastrutture, previdenza, buona parte delle spese sanitarie e scolastiche ecc. La questione delle imposte e della spesa pubblica sarà analizzata in particolare nella Parte quarta.
12 Rispetto a queste enormi masse di denaro, le banconote (inclusi gli attivi finanziari) rappresentano quantità minuscole: qualche centinaio di euro per abitante; e poche migliaia se si include l’oro, l’argento e gli oggetti di valore; ovvero un totale dell’1%-2% dei patrimoni. Cfr. allegato tecnico. D’altronde, vedremo che gli attivi pubblici si avvicinano oggi ai debiti pubblici, per cui non è assurdo considerare che le famiglie detengano attivi tramite gli attivi finanziari.
13 La formula α = r × β si legge “α uguale r moltiplicato per β”. Per cui, “β = 600%” equivale a “β = 6”, così come “α = 30%” equivale a “α = 0,30”, e “r = 5%” equivale a “r = 0,05”.
14 Preferiamo parlare di “tasso di rendimento da capitale” anziché di “tasso di profitto” sia perché il profitto è solo una delle forme giuridiche assunte dai redditi da capitale, sia perché l’espressione “tasso di profitto” è stata spesso impiegata in modo ambiguo, a volte per designare effettivamente il tasso di rendimento, a volte per designare – a torto – la quota di profitto nella composizione del reddito o del prodotto (vale a dire per designare α e non r, il che fa una grossa differenza). Capita anche che l’espressione “tasso di profitto” sia impiegata per designare la quota di profitto α.
15 Gli interessi rappresentano una forma molto particolare di redditi da capitale, molto meno rappresentativa, per esempio, dei profitti, degli affitti o dei dividendi (i quali, tenuto conto della composizione media del capitale, costituiscono masse molto più importanti rispetto agli interessi). Il “tasso d’interesse” (che tra l’altro varia enormemente a seconda dell’identità del fruitore) non rappresenta dunque il tasso medio di rendimento del capitale, e gli è spesso nettamente subordinato; la nozione ci servirà in particolare per analizzare l’attivo alquanto specifico costituito dal debito pubblico.
16 Il prodotto annuo al quale ci riferiamo qui corrisponde a quello che si chiama “valore aggiunto” dell’impresa, vale a dire la differenza tra il prodotto delle vendite di beni e servizi (la “cifra d’affari”) e il prezzo degli acquisti di beni e servizi presso le altre imprese (la “svalutazione del capitale”). Il valore aggiunto misura il contributo dell’impresa al prodotto interno del paese. Per definizione, il valore aggiunto misura anche le somme di cui l’impresa dispone per pagare il lavoro ai dipendenti e il capitale impiegato per ottenere quel prodotto. Noi ci riferiremo qui al valore aggiunto al netto della svalutazione del capitale (ovvero i costi collegati all’usura del capitale e delle infrastrutture) e ai profitti al netto di tale svalutazione.
17 Cfr. in particolare R. Giffen, The Growth of Capital, 1889. Per indicazioni bibliografiche più dettagliate, cfr. allegato tecnico.
18 Il vantaggio delle nozioni di patrimonio nazionale e di reddito nazionale consiste nel fatto che offrono una visione più equilibrata dell’arricchimento di un paese rispetto al concetto di PIL, il quale per certi aspetti suona troppo “produttivista”. Per esempio, nel caso di una forte perdita di patrimonio legata a una catastrofe naturale, la considerazione della svalutazione del capitale potrebbe condurre a una forte riduzione del reddito nazionale, quando invece il PIL potrebbe essere riequilibrato grazie ai lavori di ricostruzione.
19 Per una storia dei sistemi ufficiali dei bilanci nazionali dopo la seconda guerra mondiale, scritta da uno massimi artefici del nuovo sistema adottato dalle Nazioni Unite nel 1993 (sistema detto “SNA 1993”, il primo a proporre definizioni omogenee per i conti patrimoniali), cfr. A. Vanoli, Une histoire de la comptabilité nationale, Paris, La Découverte, 2002. Cfr. anche le testimonianze illuminanti di R. Stone, The Accounts of Society (Nobel Memorial Lecture, 1984, pubblicata in Journal of Applied Econometrics, 1986; Stone è uno dei pionieri del bilancio britannico e dell’ONU del dopoguerra) e di F. Fourquet, Les Comptes de la puissance. Histoire de la comptabilité nationale et du plan, Paris, Recherches, 1980 (raccolta di testimonianze di protagonisti del bilancio dei Trente glorieuses).
20 Angus Maddison (1926-2010) è stato un economista britannico specializzato nella ricostruzione dei bilanci nazionali a livello mondiale sul lungo periodo. Occorre notare che le classi di reddito storiche di Maddison si riferiscono unicamente al flusso di prodotto (PIL, popolazione e PIL pro capite) e non contengono alcuna indicazione sul reddito nazionale, la divisione capitale-lavoro o lo stock di capitale. Sulla dinamica della distribuzione mondiale del prodotto e del reddito, cfr. anche i lavori pionieristici di François Bourguignon e di Branko Milanovic. Cfr. allegato tecnico.
21 Presentiamo qui le classi di reddito a partire dal 1700, anche se le stime di Maddison risalgono addirittura all’antichità. I risultati da lui ottenuti suggeriscono che l’Europa ha iniziato a scavare un solco tra sé e il resto del mondo attorno al 1500, mentre attorno all’anno Mille il raffronto era leggermente più favorevole ad Asia e Africa (mondo arabo in particolare). Cfr. i grafici supplementari S1.1, S1.2 e S1.3.
22 Per semplificare l’esposizione, includiamo nell’Unione Europea i piccoli paesi europei – Svizzera, Norvegia, Serbia ecc. – compatibili con l’UE anche se ancora non ne fanno parte (la popolazione dell’UE, stricto sensu, era nel 2012 di 510 milioni e non di 540 milioni). Allo stesso modo, sono state incluse nel blocco Russia/Ucraina la Bielorussia e la Moldavia. La Turchia, il Caucaso e l’Asia centrale sono stati inclusi nell’Asia. Le cifre particolareggiate paese per paese sono disponibili online.
23 Cfr. tabella supplementare S1.1.
24 Lo stesso discorso vale per l’Australia e la Nuova Zelanda (appena 30 milioni di abitanti, ossia meno dello 0,5% della popolazione mondiale, con circa 30.000 euro di PIL medio pro capite), paesi che, per semplificare, abbiamo incluso nell’Asia. Cfr. tabella supplementare S1.1.
25 Se, per convertire il PIL americano, avessimo utilizzato il tasso di cambio corrente di 1,30 dollari per euro, gli Stati Uniti apparirebbero di circa il 10% più poveri, e il loro PIL medio pro capite non sarebbe più di 40.000 euro ma di poco più di 35.000 euro (il che equivarrebbe a un miglior potere d’acquisto del turista americano in visita in Europa). Cfr. tabella supplementare S1.1 (disponibile online). Le stime ufficiali in materia di parità del potere d’acquisto, frutto delle ricerche ICP (International Comparison Programme) sono condotte da un consorzio di enti internazionali (Banca mondiale, Eurostat ecc.) e trattano ogni paese separatamente. All’interno dell’eurozona esistono peraltro variazioni anche sensibili (la parità euro/dollaro indicata – 1,20 – è una parità media). Cfr. allegato tecnico.
26 Il calo tendenziale del potere d’acquisto del dollaro nei confronti dell’euro a partire dal 1990 riflette semplicemente il fatto che il tasso d’inflazione, negli Stati Uniti, è stato leggermente più elevato (attorno allo 0,8% annuo, o al 20% ventennale). I tassi di cambio correnti rappresentati nel grafico 1.4 rispecchiano le medie annue e non tengono perciò conto dell’enorme volatilità del brevissimo termine.
27 Cfr. allegato tecnico.
28 Riportiamo qui la spiegazione abituale del fenomeno (modello detto Balassa-Samuelson), che sembra in effetti dare sufficiente conto della variazione della parità del potere d’acquisto (PPA), superiore a 1 per i paesi poveri rispetto ai paesi ricchi. All’interno dei paesi ricchi, tuttavia, le cose sono meno chiare: il paese più ricco (gli Stati Uniti), fino agli anni settanta aveva una variazione PPA superiore, scesa poi a meno di 1 a partire dagli anni ottanta e novanta. A parte un eventuale errore di valutazione, una possibile spiegazione potrebbe essere data dalla maggiore disuguaglianza dei salari registrata nel recente periodo negli Stati Uniti, che avrebbe determinato costi più bassi nei servizi intensivi in quanto a lavoro poco qualificato, non scambiabili sul piano internazionale (così come nei paesi poveri).
29 Cfr. tabella supplementare S1.2.
30 Abbiamo deciso di optare, rispetto al periodo recente, per le stime ufficiali, ma è possibilissimo che le prossime ricerche ICP portino a rivalutare il PIL cinese. In merito alla controversia Maddison/ICP, cfr. allegato tecnico.
31 Cfr. tabella supplementare S1.2. La quota di reddito UE passa dal 21% al 25%, quella del blocco Stati Uniti/Canada dal 20% al 24% e quella del Giappone dal 5% all’8%, per un totale appunto del 57%.
32 Il che non significa che ciascun continente funzioni come un vaso chiuso: i flussi netti dissimulano importanti partecipazioni incrociate tra tutti i continenti.
33 Il dato medio del 5% per il continente africano appare relativamente stabile sull’insieme del periodo 1970-2012. È interessante notare che il flusso d’uscita dei redditi da capitale è circa tre volte superiore al flusso d’entrata degli aiuti internazionali (la cui entità si presta comunque a valutazioni diverse). Sul complesso di tali stime, cfr. allegato tecnico.
34 In altri termini: la quota di Asia e Africa nella composizione del prodotto era, nel 1913, inferiore al 30%, e la loro quota nella composizione del reddito mondiale si avvicinava al 25%. Cfr. allegato tecnico.
35 Il fatto che l’accumulazione del capitale fisico spieghi solo in parte la crescita della produttività a lungo termine, e che l’essenziale provenga dall’accumulazione del capitale umano e dalle nuove conoscenze, è un fatto riconosciuto fin dagli anni cinquanta-sessanta del Novecento. Cfr. in particolare Solow, A Contribution to the Theory of Economic Growth, cit. I recenti articoli di C. Jones e P. Romer (“The New Kaldor Facts: Ideas, Institutions, Population and Human Capital”, in American Economic Journal: Macroeconomics, 2010) e R. Gordon (Is US Economic Growth over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds, NBER Working Paper 18315, 2012) costituiscono degli utili punti d’avvio nella voluminosa letteratura economica contemporanea dedicata ai determinanti della crescita a lungo termine.
36 Secondo uno studio recente, i guadagni statici procurati alla Cina e all’India dall’apertura del commercio mondiale sarebbero soltanto dello 0,4% del PIL mondiale, il 3,5% del PIL per la Cina e l’1,6% del PIL per l’India. Tenuto conto degli enormi effetti redistributivi tra settori e paesi (con fattori di perdita molto consistenti in tutti i paesi), sembra difficile dar credito, sulla base di simili guadagni, all’apertura commerciale (alla quale i paesi sembrano tuttavia molto legati) come unica soluzione. Cfr. allegato tecnico.