I rischi dell’equivalenza ricardiana
La lunga e tumultuosa storia del debito pubblico, dai tranquilli rentiers del XVIII e del XIX secolo alla loro espropriazione causata dall’inflazione del XX secolo, ha profondamente segnato la memoria e l’immaginario collettivi. Così come ha profondamente influenzato gli economisti. Per esempio, quando David Ricardo nel 1817 formula l’ipotesi nota oggi con il nome di “equivalenza ricardiana”, secondo la quale l’indebitamento pubblico non avrebbe per certi aspetti alcuna incidenza sull’accumulazione del capitale nazionale, è chiaramente influenzato da quanto vede attorno a sé. Nel momento in cui scrive, il debito pubblico britannico è vicino al 200% del PIL, e ancora non sembra aver prosciugato l’investimento privato e l’accumulazione di capitale. Il tanto temuto fenomeno di crowding out non si è verificato, e la crescita dell’indebitamento pubblico pare essere stata finanziata da un aumento del risparmio privato. Il che non vuol dire che si tratti di una legge universale, valida in ogni tempo e luogo: tutto dipende, è evidente, dalla ricchezza del gruppo sociale interessato (nello specifico, una minoranza di inglesi aveva i mezzi sufficienti per produrre il risparmio supplementare richiesto), dal tasso d’interesse offerto e ovviamente dalla fiducia dei cittadini nel proprio governo. Tuttavia merita di essere notato il fatto che Ricardo, il quale non dispone di serie storiche di dati o di misurazioni analoghe a quelle indicate nel grafico 3.3, ma conosce intimamente il capitalismo britannico del suo tempo, percepisce in modo abbastanza chiaro che il gigantesco debito pubblico diffuso possa non avere alcun impatto sul patrimonio nazionale, e rappresenti semplicemente un credito di una parte del paese nei confronti dell’altra.15
Non diversamente da Ricardo, quando, nel 1936, Keynes si pronuncia a proposito di quella che definisce l“eutanasia dei rentiers”, è profondamente influenzato da quanto osserva attorno a sé: il mondo dei rentiers, del periodo precedente la prima guerra mondiale, sta ormai crollando, e di fatto non esiste nessun’altra soluzione politicamente accettabile che aiuti a superare la crisi economica e di bilancio in corso. In particolare, Keynes capisce che l’inflazione, accettata a malincuore dal Regno Unito – tanto è forte l’attaccamento degli ambienti conservatori alla base aurea antecedente il 1914 –, è il modo più semplice per ridurre il peso dell’indebitamento pubblico e dei patrimoni ereditati dal passato.
Dopo gli anni settanta del Novecento, gli studi in materia di debito pubblico risentono del fatto che l’analisi degli economisti si fonda decisamente troppo sui cosiddetti modelli “a parametro rappresentativo”, vale a dire su modelli in cui si presume che ciascun attore disponga dello stesso reddito e dello stesso patrimonio (e quindi, in particolare, della stessa quantità di debito pubblico). A volte, una tale semplificazione del mondo reale può essere utile per identificare rapporti logici difficili da analizzare seguendo modelli più complessi, ma resta il fatto che, rimuovendo del tutto il problema della disuguaglianza della distribuzione dei redditi e dei patrimoni, modelli simili portano il più delle volte a conclusioni estreme e poco verosimili, generando più confusione che chiarezza. Nel caso del debito pubblico, seguendo i modelli “a parametro rappresentativo”, si può arrivare alla conclusione della completa neutralità del debito pubblico, non solo per quanto riguarda il livello globale del capitale nazionale, ma anche per quanto riguarda la distribuzione del carico fiscale. Questa reinterpretazione radicale dell’equivalenza ricardiana proposta dall’economista americano Robert Barro16 non tiene conto del fatto che una gran parte del debito pubblico – per esempio nel Regno Unito nel XIX secolo, ma non solo – è detenuta praticamente da una ristretta minoranza della popolazione, così che il debito comporta redistribuzioni non da poco all’interno del paese, sia nel caso esso venga rimborsato sia in caso contrario. Data la forte concentrazione che ha sempre caratterizzato la distribuzione dei patrimoni – il cui sviluppo analizzeremo nella Parte terza del volume – studiare problemi del genere ignorando le disuguaglianze tra gruppi sociali equivale de facto a passare sotto silenzio una buona parte dell’oggetto di studio e della posta in gioco.