I flussi: più difficili da stimare degli stock
Precisiamo inoltre che un limite significativo di questo tipo di calcolo riguarda i redditi dei lavoratori autonomi, per i quali è spesso difficile isolare la remunerazione del capitale.
Oggi il problema è meno rilevante che in passato, in quanto la maggior parte dell’attività economica privata si sviluppa all’interno di società per azioni, o più in generale società di capitali, vale a dire di società in cui la contabilità dell’impresa è nettamente separata da quella dei soggetti investitori (coinvolti peraltro solo in rapporto alla loro quota di capitale, e non alla loro ricchezza individuale: è la rivoluzione introdotta dalla “società a responsabilità limitata”, affermatasi un po’ ovunque alla fine del XIX secolo), e in cui il reddito da lavoro (salari, premi e altri pagamenti versati a tutti coloro che hanno prestato il proprio lavoro, compresi i quadri dirigenti) è nettamente distinto dal reddito da capitale (dividendi, interessi, profitti reinvestiti per accrescere il valore del capitale ecc.).
Diverso è il caso delle società di persona, in particolare delle imprese individuali, i cui bilanci si confondono a volte con la contabilità personale dell’imprenditore che ne è a capo e che ne è spesso anche il proprietario e il gestore. Attualmente, nei paesi ricchi, circa il 10% del prodotto interno è frutto del lavoro di lavoratori non dipendenti impegnati in imprese individuali, il che corrisponde più o meno a quel 10% di non salariati che, fa parte della popolazione attiva. I lavoratori non salariati sono in genere raggruppati in piccole imprese di servizi (commercianti, artigiani, ristoratori ecc.) e nell’ambito delle cosiddette professioni liberali (medici, avvocati ecc.). Per molto tempo quell’insieme ha incluso anche molti piccoli proprietari agricoli, oggi largamente scomparsi. Nei bilanci delle società individuali, è perlopiù impossibile identificare il valore della remunerazione del capitale: per esempio, i guadagni di un radiologo coprono sia il suo lavoro e sia le attrezzature, a volte molto costose, che ha dovuto acquistare. Lo stesso discorso vale per l’albergatore o il piccolo proprietario agricolo. Ecco perché si parla, nel caso dei lavoratori non salariati, di “redditi misti”, cioè redditi sia da lavoro sia da capitale. Si potrebbe anche parlare di “reddito imprenditoriale”.
Per ripartire i redditi misti tra redditi da capitale e redditi da lavoro, abbiamo utilizzato la stessa ripartizione media capitale-lavoro già utilizzata per il resto dell’economia. È la soluzione meno arbitraria, e sembra offrire risultati analoghi a quelli ottenuti con gli altri due metodi generalmente utilizzati.2 Si tratta pur sempre di un’approssimazione, dal momento che per definizione il confine tra redditi da capitale e redditi da lavoro è, nel quadro dei redditi misti, tutt’altro che definito in modo netto. Per il periodo attuale, la cosa non fa comunque molta differenza: considerato il peso alquanto relativo dei redditi misti, l’incertezza rispetto alla quota reale del capitale è al massimo valutabile nell’ordine del 1-2% del reddito nazionale. Per i periodi passati, soprattutto per il XVIII e il XIX secolo, nel corso dei quali i redditi misti potevano equivalere a più della metà del reddito nazionale, le incertezze possono potenzialmente assumere un peso ben più rilevante.3 Per questo le stime disponibili della porzione di capitale rappresentata dai redditi misti nei secoli XVIII e XIX non potevano che essere considerate come approssimazioni.4
Il tutto, in ogni caso, non può rimettere in discussione l’altissimo livello dei redditi da capitale da noi stimati per il periodo in esame (almeno il 40% del reddito nazionale): nel XVIII secolo e all’inizio del XIX, sia nel Regno Unito sia in Francia, la rendita fondiaria versata ai proprietari terrieri equivaleva da sola al 20% del reddito nazionale, e tutto fa pensare che il rendimento dei terreni agricoli (circa la metà del capitale nazionale) fosse appena poco inferiore al rendimento medio da capitale, e, a giudicare dall’altissimo livello dei profitti industriali, nettamente inferiore solo al rendimento del capitale industriale, soprattutto durante la prima metà del XIX secolo. Tuttavia, le incertezze dei dati disponibili consigliano di indicare più un intervallo – tra il 35% e il 45% – che una stima univoca.
Per il XVIII e il XIX secolo, le stime del valore dello stock di capitale sono probabilmente più precise di quelle sul flusso dei redditi da lavoro e dei redditi da capitale. In larga misura si può confermare lo stesso per gli anni dieci del XXI secolo. Ecco perché abbiamo deciso, nell’ambito della nostra indagine, di porre l’accento sull’evoluzione del rapporto capitale/reddito e non sulla divisione capitale-lavoro, come si è sempre fatto e si fa tuttora nella ricerca economica classica.