Le forme dello Stato sociale
Per meglio comprendere quali obiettivi si profilano dietro le cifre indicate, occorre ora analizzare un po’ più a fondo a che cosa è servita la crescita storica dei prelievi fiscali obbligatori, determinata dalla nascita, nel corso del XX secolo, dello “stato sociale”.9 Nel corso del XIX secolo, fino al 1914, il potere statale si limitava ad assolvere alle grandi funzioni nazionali – funzioni che ancora oggi mobilitano un po’ meno di un decimo del reddito nazionale. L’aumento della quota di prelievi fiscali sulle ricchezze prodotte ha permesso al potere pubblico di farsi carico di servizi sociali sempre più importanti, equivalenti a un valore che sta, a seconda dei paesi, tra un quarto e un terzo del reddito nazionale e che si può scomporre più o meno in due metà di analoga entità: le spese pubbliche per l’istruzione e la sanità, e i redditi per inattività o i redditi sociali.10
Oggi, all’inizio del XXI secolo in tutti i paesi sviluppati, le spese pubbliche per l’istruzione e la sanità equivalgono a una quota tra il 10% e il 15% del reddito nazionale.11 All’interno dello schema d’insieme, si constatano tuttavia differenze significative tra paese e paese. In tutti i paesi l’educazione primaria e secondaria è quasi interamente gratuita per tutta la popolazione, mentre l’insegnamento superiore può essere molto costoso, soprattutto negli Stati Uniti e, a un livello minore, anche nel Regno Unito. Il sistema sanitario pubblico è universale (vale a dire a disposizione di tutta la popolazione) un po’ ovunque in Europa, Regno Unito compreso,12 ma negli Stati Uniti è riservato solo ai più bisognosi e agli anziani (per i quali resta comunque costoso).13 In tutti i paesi sviluppati, le spese pubbliche coprono in gran parte il costo dei servizi scolastici e sanitari: in Europa per circa tre quarti, negli Stati Uniti solo per metà. L’obiettivo è quello di consentire la parità d’accesso ai beni fondamentali: ogni bambino deve poter accedere alla formazione scolastica, quale che sia il reddito dei genitori; ciascuno deve poter avere accesso alle cure, soprattutto quando ne ha assoluto bisogno.
Oggi, nella maggioranza dei paesi ricchi, i redditi per inattività e quelli sociali equivalgono in genere a una quota tra il 10% e il 15% (a volte quasi il 20%) del reddito nazionale. Contrariamente alle spese pubbliche per l’istruzione e la sanità, che possono essere considerate trasferimenti in natura, i redditi per inattività e sociali fanno parte del reddito disponibile delle famiglie: il potere pubblico preleva masse importanti di imposte e contributi per versarle alle famiglie sotto forma di redditi per inattività (pensioni di vecchiaia, indennità di disoccupazione) e di differenti trasferimenti monetari (assegni familiari, salari minimi garantiti ecc.), per cui il reddito disponibile totale delle famiglie, considerato nel suo insieme, resta immutato.14
In pratica, le pensioni equivalgono alla maggior parte (tra i due terzi e i tre quarti) del totale dei redditi per inattività e sociali. Anche in questo caso esistono però, all’interno dello schema d’insieme, variazioni significative tra paese e paese. Nell’Europa continentale, le pensioni di vecchiaia superano spesso, da sole, il 12-13% del reddito nazionale (con l’Italia e la Francia nella parte alta della classifica, seguite dalla Germania e dalla Svezia). Negli Stati Uniti e nel Regno Unito, il sistema pensionistico pubblico è invece, per i salari medi ed elevati, calmierato con molta più severità (il tasso di conversione, vale a dire l’ammontare della pensione espresso in rapporto ai salari ottenuti in precedenza, scende piuttosto in fretta quando il salario supera il salario medio), e le pensioni equivalgono solo a poco più del 6-7% del reddito nazionale.15 In tutti i casi, si tratta di importi decisamente considerevoli: in tutti i paesi ricchi, il sistema pensionistico pubblico costituisce la prima fonte di reddito per almeno i due terzi dei pensionati (in genere per più di tre quarti). Malgrado i difetti, e a parte le sfide che si dovranno affrontare nei prossimi anni, resta il fatto che sono stati questi sistemi pensionistici pubblici a determinare, in tutti i paesi sviluppati, la scomparsa della povertà della terza età, una condizione che negli anni cinquanta e sessanta costituiva una piaga endemica. Con l’accesso all’istruzione e alla salute, essi rappresentano la terza grande rivoluzione sociale finanziata dalla rivoluzione fiscale del XX secolo.
Rispetto alle pensioni, le indennità di disoccupazione equivalgono a importi molto più ridotti (più o meno l’1-2% del reddito nazionale), il che rispecchia il fatto che si passa in media meno tempo della propria vita disoccupati che pensionati. Anche i redditi di inattività corrispondenti, quando viene il momento, non sono meno indispensabili. I salari minimi garantiti, poi, corrispondono ad aggregati di spesa ancor meno rilevanti (meno dell’1% del reddito nazionale), quasi insignificanti se rapportati al totale delle spese pubbliche. Si tratta comunque di spese spesso tra le più aspramente contestate. I beneficiari, infatti, vengono spesso sospettati di approfittare indefinitamente dell’assistenza pubblica, quando invece le percentuali di utilizzo di queste forme di reddito minimo sono in genere molto più basse di quelle relative alle altre prestazioni, a riprova del fatto che la stigmatizzazione (e sovente la complessità dei dispositivi stessi) dissuadono dal ricorrervi chi pure ne avrebbe diritto.16 Esiste questo tipo di discussione relativamente al reddito minimo garantito anche negli Stati Uniti (dove la madre single, nera e disoccupata, incarna, per i denigratori del pur modesto welfare state americano, il ruolo della reietta assoluta).17 In entrambi i continenti, le masse finanziarie in gioco equivalgono in realtà a una minima parte dello Stato sociale.
In totale, se sommiamo le spese pubbliche per l’istruzione e la salute (10-15% del reddito nazionale) e i redditi di inattività e sociali (anch’essi attorno al 10-15% del reddito nazionale, a volte vicini al 20%), otteniamo un saldo complessivo di spese sociali (in senso ampio) compreso tra il 25% e il 35% del reddito nazionale, equivalente nei paesi ricchi al totale, o quasi, della quota crescente dei prelievi fiscali obbligatori osservata nel XX secolo. In altri termini, lo sviluppo dello Stato fiscale avvenuto nel secolo scorso corrisponde sostanzialmente alla nascita di uno Stato sociale.