Ereditieri e imprenditori nelle classifiche dei patrimoni
Una delle lezioni più interessanti ricavabili dalle classifiche Forbes è che, al di là di una certa soglia, tutte le ricchezze – ereditarie o imprenditoriali – crescono a ritmi estremamente elevati, sia che il titolare della fortuna in questione eserciti un’attività professionale sia che non la eserciti. L’esattezza di una tale conclusione, derivante da un modello d’osservazione tutto sommato ridotto e da un tipo di raccolta dei dati piuttosto approssimativo e frammentario, non va certo sopravvalutata, ma il suo interesse resta indiscutibile.
Prendiamo un caso particolarmente lampante, appartenente ai piani alti della gerarchia mondiale del capitale. Tra il 1990 e il 2010, il patrimonio di Bill Gates – fondatore di Microsoft, leader mondiale di Internet, incarnazione della ricchezza imprenditoriale, numero uno della classifica di Forbes per più di dieci anni – è passato da 4 miliardi a 50 miliardi di dollari.14 Contemporaneamente quella di Liliane Bettencourt – erede di L’Oréal, leader mondiale nella produzione dei cosmetici, fondata dal padre Eugène Schueller, geniale inventore nel 1907 di tinte per capelli destinate a un grande avvenire (non diversamente dal profumiere César Birotteau un secolo prima) – è passata da 2 miliardi a 25 miliardi di dollari, sempre secondo Forbes.15 In entrambi i casi, l’aumento corrisponde a una crescita media di più del 13% annuo tra il 1990 e il 2010, vale a dire a un rendimento reale dell’ordine del 10-11% annuo, al netto dell’inflazione.
In altri termini, Liliane Bettencourt non ha mai lavorato, ma ciò non toglie che la sua ricchezza cresca con la stessa rapidità di quella di Bill Gates l’inventore, il cui patrimonio continua peraltro ad aumentare ugualmente in fretta dopo che ha lasciato la professione. Una volta accumulato un patrimonio, la dinamica patrimoniale segue una logica propria, e un capitale può continuare a crescere a ritmo sostenuto per decenni, per il semplice effetto del volume a cui corrisponde. Non solo. Al di là di una certa soglia, un tale effetto, legato in particolare alle economie di scala nella gestione di un portafogli e nell’assunzione di determinati rischi, è rafforzato dal fatto che il patrimonio può ricapitalizzarsi pressoché integralmente. Con un patrimonio di un tale livello, il tenore di vita del suo possessore assorbe, ogni anno, al massimo alcuni decimi percentuali del capitale, per cui la quasi totalità del rendimento può essere reinvestita.16 Si tratta di un meccanismo economico elementare, e tuttavia importante, di cui si sottovalutano assai spesso le inquietanti conseguenze per la dinamica a lungo termine dell’accumulazione e della distribuzione dei patrimoni. Il denaro, a volte, tende a riprodursi da solo. E una realtà come questa non era sfuggita, con tutta la sua crudezza, a Balzac. Pensiamo al racconto dell’irresistibile ascesa patrimoniale dell’ex pastaio: “Il cittadino Goriot ammassò i capitali che più tardi gli servirono per dedicarsi ai suoi commerci con tutta la superiorità che deriva dal possedere molto denaro.”17
Si può anche rilevare come Steve Jobs, il quale nell’immaginario collettivo incarna ancor più di Bill Gates il simbolo dell’imprenditore simpatico e della ricchezza meritata, possedesse nel 2011, al sommo della gloria e dei guadagni di borsa della Apple, appena 8 miliardi di dollari, sei volte meno del creatore della Microsoft (peraltro meno inventivo, secondo tanti osservatori, del creatore della Apple), e tre volte meno di Liliane Bettencourt. Nelle classifiche di Forbes si trovano decine di miliardari eredi di grossi patrimoni molto più ricchi di Jobs. Evidentemente, il patrimonio non è solo una questione di merito. E i patrimoni ereditati arrivano sovente a ottenere un rendimento elevatissimo per il semplice effetto del loro volume iniziale.
È però impossibile proseguire oltre in questo tipo d’indagine, poiché, purtroppo, i dati di Forbes sono troppo limitati per consentire analisi sistematiche e affidabili (contrariamente ai dati sulle dotazioni universitarie, che utilizzeremo più avanti). Va inoltre sottolineato che i metodi impiegati dalle riviste specializzate portano a sottovalutare in misura significativa proprio l’importanza delle ricchezze ereditate. I giornalisti non dispongono infatti di alcun prospetto fiscale o amministrativo completo che permetta di rintracciare l’origine delle ricchezze. Per cui si muovono su un terreno pragmatico, raccogliendo informazioni da fonti assai disparate, spesso facendo telefonate o inviando email, il che procura magari informazioni preziose, ma non sempre affidabili. Il loro pragmatismo non è di per sé censurabile: è solo la conseguenza del fatto che il potere pubblico non organizza correttamente la raccolta di informazioni in proposito, a partire dalle dichiarazioni annue dei patrimoni, raccolta che svolgerebbe un’utilissima missione d’interesse generale e che, grazie alle moderne tecnologie, potrebbe essere condotta con sistemi automatizzati. Vediamo così le conseguenze di una tale inefficienza. In pratica, i giornalisti delle riviste specializzate muovono dagli elenchi delle grandi imprese quotate e cercano di determinare la struttura del loro azionariato, seguendo un percorso d’indagine che, per sua natura, rende molto più difficile scovare le ricchezze ereditate (spesso collocate in portafogli relativamente diversificati) che scovare quelle imprenditoriali o in via di formazione (di regola più concentrate su un’unica impresa).
Per i maggiori patrimoni ereditati, dell’ordine di parecchie decine di miliardi di dollari o di euro, si può certo supporre che le attività restino in larga misura capitalizzate all’interno dell’impresa familiare (come le attività della famiglia Bettencourt in L’Oréal o della famiglia Walton in Wal-Mart negli Stati Uniti), nel qual caso le ricchezze diventano, come quelle di Bill Gates o Steve Jobs, facilmente accertabili. A livelli inferiori, però, non è sempre così: quando si scende dalle decine di miliardi ad alcuni miliardi di dollari (secondo Forbes, ogni anno, nel mondo, spuntano diverse centinaia di nuove ricchezze di simile entità), e ancor più quando si scende ad alcune decine o ad alcune centinaia di milioni di euro, è probabile che una quota rilevante dei beni ereditari assuma la forma di portafogli relativamente diversificati, nel qual caso è difficile per i giornalisti specializzati rintracciarli (anche perché le persone interessate hanno in genere molta meno voglia degli imprenditori di farsi conoscere). È dunque inevitabile, per tali carenze statistiche, che le classifiche delle ricchezze tendano a sottostimare la dimensione dei patrimoni ereditati.
Alcune riviste, come Challenges in Francia, si preoccupano non a caso di avvertire che i giornalisti stanno solo cercando di inventariare le cosiddette ricchezze “professionali”, cioè perlopiù investite in una particolare impresa, e che non sono interessati ai patrimoni che assumono la forma di portafogli diversificati. Il problema è che è difficile ottenere da parte loro una definizione precisa di che cosa intendano con ciò: perché una ricchezza possa rientrare nel rango delle ricchezze “professionali” deve superare una certa soglia di proprietà del capitale societario? Tale soglia dipende dal volume finanziario della società? E, se sì, secondo quale proiezione economica? In realtà, il criterio per entrare in classifica pare soprattutto pragmatico: vi figurano infatti ricchezze di cui i giornalisti sono effettivamente venuti a conoscenza, e che soddisfano il criterio fissato (nel caso della lista di Forbes, superare il miliardo di dollari; nel caso di Challenges e di altre riviste pubblicate in altri paesi, rientrare nelle cinquecento ricchezze maggiori censite in un dato paese). È certo un pragmatismo comprensibile, ma è evidente come una campionatura così imprecisa ponga seri problemi, qualora si intenda stabilire confronti nel tempo e tra paese e paese. Se poi si aggiunge il fatto che classifiche del genere – siano esse realizzate da Forbes, da Challenges o da altre riviste – non sono mai tanto chiare in merito al principio di osservazione (sono inclusi tra i detentori di una stessa fortuna sia i singoli individui sia interi gruppi familiari, il che crea una difformità di altro tipo, nel senso di una sopravvalutazione del volume degli alti patrimoni), si vede fino a che punto i materiali forniti siano inadatti a studiare la delicata questione della quota di eredità nella composizione dei patrimoni o della crescita delle disuguaglianze patrimoniali.18
Va anche aggiunto che spesso, su riviste del genere, affiora una prevenzione ideologica, abbastanza chiara, a favore degli imprenditori, e una volontà appena dissimulata di celebrarli, o quantomeno di esagerarne l’importanza. Non manchiamo certo di rispetto a Forbes se rimarchiamo il fatto che il giornale rischia di essere letto, anzi, si presenta dichiaratamente, come un inno all’imprenditorialità e alla ricchezza utile e meritata. Lo stesso proprietario della rivista, Steve Forbes, non è un rentier ma un miliardario che ha puntato per due volte, pur mancandola, alla candidatura presidenziale per il partito repubblicano: è stato suo nonno a fondare, nel 1917, la celebre rivista, e a inaugurare così la fortuna dei Forbes, che poi i successori, e in particolare Steve, hanno provveduto a ingrandire. Le classifiche pubblicate da Forbes propongono a volte una scomposizione dei miliardari in tre gruppi: gli imprenditori puri, gli ereditieri puri e le persone che hanno ereditato una fortuna facendola fruttare. Secondo i dati della rivista, ciascuno dei tre gruppi equivale in genere a un terzo del totale, con una tendenza – stando a quanto dicono – al calo della quota degli ereditieri puri e a un aumento di quella degli ereditieri parziali. Il problema è che Forbes non ha mai dato una definizione precisa dei vari gruppi (soprattutto non ha mai precisato l’esatta distinzione tra ereditieri puri ed ereditieri parziali) e non indica mai alcun importo in materia di eredità.19 In tali condizioni, è ben difficile arrivare a una conclusione precisa in merito alla tendenza segnalata da Forbes.
Date le non poche difficoltà, che cosa si potrà mai dire a proposito delle rispettive quote di ereditieri e di imprenditori nella composizione delle maggiori ricchezze? Se consideriamo insieme gli ereditieri puri e quelli parziali presenti nelle classifiche di Forbes (presupponendo che la ricchezza dei secondi derivi per metà dall’eredità), e se riesaminiamo la loro fortuna complessiva alla luce della sottovalutazione strutturale delle ricchezze ereditarie, pare naturale concludere che tali ricchezze equivalgono a più della metà delle maggiori ricchezze mondiali. Una stima che si aggiri sul 60-70%, cioè su livelli sensibilmente inferiori a quelli osservati nella Francia della belle époque (80-90%), ci sembra di per sé abbastanza realistica: un dato che potrebbe spiegarsi con l’elevato tasso di crescita oggi osservato sul piano mondiale, comprensivo tra l’altro dell’entrata in classifica di nuove ricchezze prodotte dai paesi emergenti. Ma si tratta solo di un’ipotesi, non di una certezza.