Modernizzare lo Stato sociale, e non smantellarlo

Rimane il fatto che la redistribuzione moderna, in particolare lo Stato sociale fondato nel corso del XX secolo dai paesi più sviluppati, è stato costruito attorno a un complesso di diritti sociali fondamentali: il diritto all’istruzione, alla salute, alla pensione. Quali che siano le limitazioni e le sfide alle quali devono far fronte oggi questi sistemi di prelievo fiscale e di spesa, quel complesso di diritti rappresenta un immenso progresso storico. Al di là degli scontri elettorali e delle partigianerie politiche, si tratta di sistemi sociali salutati da un larghissimo consenso, in particolare in Europa, dove persiste un attaccamento molto forte a quello che è stato percepito come un “modello sociale europeo”. Nessuna corrente d’opinione significativa, nessuna forza politica di spicco, pensa seriamente di tornare a un mondo in cui in cui il tasso di prelievo fiscale torni a scendere al 10% o al 20% del reddito nazionale, e in cui il potere pubblico si limiti ai servizi nazionali essenziali.24

Tuttavia, sul piano opposto, nessuna importante corrente d’opinione sostiene che il processo di estensione illimitata dello Stato sociale debba riprodursi in futuro allo stesso ritmo del periodo 1930-80 (uno slancio che, da qui al 2050 o al 2060, potrebbe portare il tasso di prelievo fiscale al 70-80% del reddito nazionale). In assoluto, nulla impedisce di immaginare una società in cui le imposte equivalgano ai due terzi o ai tre quarti del reddito nazionale, a condizione che il prelievo avvenga in modo trasparente ed efficace e sia accettato da tutti, e che, soprattutto, esso sia impiegato per finanziare bisogni e investimenti giudicati prioritari, per esempio nella formazione, nella sanità, nella cultura, nell’energia pulita e nello sviluppo sostenibile. L’imposta, in sé, non è né buona né cattiva: tutto dipende dal modo in cui la si preleva e dall’uso che se ne fa.25 Esistono comunque due buone ragioni per pensare che una progressione così forte non sia né realistica né conveniente, quantomeno in una prospettiva prevedibile.

In primo luogo la progressiva e rapida estensione del ruolo dello Stato osservata nel corso dei Trente glorieuses è stata assai agevolata e accelerata dalla crescita eccezionalmente forte che ha caratterizzato il periodo, perlomeno nell’Europa continentale.26 Quando i redditi crescono del 5% annuo, non è tanto difficile accettare che una parte della crescita sia destinata ogni anno all’aumento del tasso di prelievo fiscale e di spesa pubblica (e che, dunque, prelievo e spesa crescano più in fretta della crescita media), soprattutto in un contesto in cui i bisogni in termini di istruzione salute e pensioni appaiono evidenti, tanto è vero che si parte da livelli molto bassi sia nel 1930 sia nel 1950. Mentre, a partire dagli anni ottanta e novanta, le cose si sono messe in un modo del tutto diverso: con una crescita del reddito medio per abitante adulto di poco più dell’1% annuo, non c’è nessuno che si auguri una crescita massiccia del prelievo fiscale, la quale aggraverebbe ancor più la mancata crescita dei redditi, anzi, la trasformerebbe in una vera e propria regressione. In secondo luogo è possibile immaginare delle redistribuzioni tra prelievi fiscali, o una maggiore progressività fiscale, quando la massa globale è più o meno stabile; anche se è molto difficile mettere in conto un aumento generale e duraturo del tasso medio d’imposizione fiscale. Non è un caso che in tutti i paesi ricchi si registri una stabilizzazione, a prescindere dalle peculiarità nazionali e dalle alternanze politiche (cfr. grafico 13.1). Non è detto, infatti, che i bisogni giustifichino un aumento indefinito dei prelievi pubblici: è vero che esistono bisogni obiettivamente crescenti in termini di formazione e salute, tali da giustificare, per il futuro, un lieve aumento dei prelievi stessi, ma è anche vero che gli abitanti dei paesi ricchi hanno al tempo stesso bisogni legittimi in termini di potere d’acquisto, per procurarsi tutti quei beni di consumo e tutti quei servizi che vengono prodotti dal settore privato, per esempio per viaggiare, vestirsi, avere un’abitazione, accedere a nuovi servizi culturali, regalarsi l’ultimo tablet e così via. In un mondo dalla crescita debole della produttività, attorno all’1-1,5%, come s’è visto, comunque non trascurabile sul lungo termine, occorre operare delle scelte tra differenti tipi di bisogni, e non c’è ragione ovvia per pensare che i prelievi pubblici debbano finanziare, in definitiva, la quasi totalità dei bisogni.

Al di là della logica dei bisogni e della divisione della crescita tra bisogni diversi, va poi considerato il fatto che il settore pubblico, quando supera una certa dimensione, pone seri problemi di organizzazione. E anche in questo caso non è possibile prevedere nulla sul lungo periodo. È solo possibile immaginare lo sviluppo di nuovi modelli di organizzazione decentrati e partecipativi, l’invenzione di forme innovative di governance, che permettano, in sostanza, di strutturare in maniera efficace un settore pubblico molto più vasto di quello che esiste oggi. La nozione stessa di “settore pubblico” è peraltro riduttiva: il fatto che esista un finanziamento pubblico non implica che alla produzione del servizio in questione concorrano persone direttamente impiegate dallo Stato o dalle amministrazioni pubbliche in senso stretto. Nei settori dell’istruzione o della sanità, esiste in tutti i paesi una grande varietà di strutture giuridiche, specie sotto forma di fondazioni e associazioni, che fungono di fatto da strutture intermedie tra le due forme giustapposte dello Stato e dell’impresa privata, e che partecipano in pari modo alla produzione di pubblici servizi. In totale, nelle economie sviluppate, l’istruzione e la sanità equivalgono a più del 20% dell’impiego e del PIL, vale a dire a una percentuale superiore a quella di tutti i settori industriali nel loro insieme: non si tratta, insomma, di una quota trascurabile. Inoltre questo modello di organizzazione della produzione corrisponde a una realtà duratura e universale. Tanto per dire: nessuno prevede di trasformare le università americane in società per azioni. Ed è possibilissimo che in futuro queste forme intermedie si estendano, per esempio nel settore della cultura o in quello dei media, dove il modello di azienda a scopo di lucro non è più, da molto tempo, la forma unica, e pone spesso seri problemi, soprattutto in termini di conflitti d’interesse. Abbiamo anche visto, studiando la struttura e lo sviluppo del capitale in Germania, che nemmeno la nozione in sé di proprietà privata è univoca – basti pensare al settore industriale più classico (l’automobilistico). L’idea secondo cui esisterebbe un’unica forma possibile di proprietà del capitale e di organizzazione della produzione non corrisponde in alcun modo alla realtà del mondo sviluppato: oggi viviamo in un sistema di economia mista, certamente ben diverso da quello concepito nel secondo dopoguerra, eppure, nonostante tutto, estremamente reale. E il fenomeno si accentuerà senza dubbio in futuro: quando s’inventeranno nuove forme di organizzazione e di proprietà.

Ciò posto, prima di imparare a organizzare con efficacia finanziamenti pubblici equivalenti ai due terzi o ai tre quarti del reddito nazionale, sarebbe cosa giusta migliorare l’organizzazione e il funzionamento di un settore pubblico oggi equivalente alla metà del reddito nazionale (includendovi i redditi per inattività e sociali) – impresa già non indifferente. In Germania come in Francia o in Italia, nel Regno Unito come in Svezia, il dibattito sullo Stato sociale, negli anni e nei decenni a venire, riguarderà in primo luogo i problemi di organizzazione, di modernizzazione e di consolidamento. Per una massa totale di prelievi fiscali e di spese più o meno invariata in rapporto al reddito nazionale (o forse in lieve rialzo, se si segue una logica di bisogno), come migliorare il funzionamento degli ospedali e degli asili? Come rivedere gli onorari dei medici e i costi delle medicine? Come riformare le università o le scuole primarie? Come correggere il calcolo delle pensioni o delle indennità di disoccupazione in rapporto alla crescita dell’aspettativa di vita e della disoccupazione giovanile? Dal momento che tutte le spese pubbliche equivalgono a quasi la metà del reddito nazionale, si tratta di domande più che legittime, oltre che cruciali. Se non ci si interroga di continuo su come adeguare sempre meglio i servizi alle pubbliche necessità, il consenso all’alto livello dei prelievi fiscali e dunque allo Stato sociale, non durerà in modo eterno.

L’analisi delle prospettive di riforma dell’insieme dello Stato sociale andrebbe però ben oltre le intenzioni del nostro libro. Ci limiteremo dunque a mettere in luce i problemi legati a due settori d’intervento particolarmente importanti per il futuro, e strettamente legati alla nostra ricerca: la questione dell’uguaglianza nell’accesso alla formazione, in particolare all’istruzione superiore, e la questione del futuro dei sistemi pensionistici basati sulla ripartizione in un mondo dalla crescita debole.

Il capitale nel XXI secolo
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