La crescita, fonte di livellamento dei destini

In ogni caso, l’obiettivo del presente libro non è quello di delineare previsioni demografiche, bensì quello di prendere atto dei diversi possibili scenari e di analizzarne le implicazioni sul processo di distribuzione delle ricchezze. Infatti la crescita demografica non ha solo conseguenze sullo sviluppo e sul relativo potere economico delle nazioni, ha anche implicazioni importanti in merito alla struttura delle disuguaglianze. A parità di fattori, una crescita demografica forte tende infatti ad avere un ruolo ugualitario, poiché diminuisce il livello d’incidenza dei patrimoni ereditati dal passato, e quindi dell’eredità stessa: ogni generazione, insomma, deve bene o male costruirsi da sola.

Per fare un esempio estremo, in un mondo in cui ciascuno avesse dieci figli è chiaro che sarebbe meglio – in generale – non contare troppo sull’eredità, poiché tutto verrebbe diviso per dieci. In una società del genere, il peso globale dell’eredità risulterebbe fortemente ridotto, e nella maggioranza dei casi sarebbe più realistico puntare sul lavoro che sul proprio risparmio.

Un fenomeno analogo si presenta quando la popolazione viene costantemente rinnovata da flussi migratori, come in America. Dal momento che la maggior parte dei migranti arriva priva di un patrimonio consistente, la massa dei patrimoni frutto del passato appare, in società di questo tipo, piuttosto ridotta rispetto alla massa dei nuovi patrimoni accumulati con il risparmio. La crescita demografica per apporto migratorio comporta inoltre altre conseguenze, soprattutto in termini di disuguaglianze tra i migranti e gli autoctoni, nonché all’interno di ciascuno dei due gruppi, e non è assolutamente paragonabile alla situazione di una società in cui la dinamica demografica dipenda prevalentemente dalla crescita naturale, cioè dalla natalità.

Vedremo ora come l’intuizione sugli effetti della popolazione possa in certa misura estendersi a società in crescita economica – e non solo demografica – molto rapida. Per esempio, in un mondo il cui prodotto pro capite dovesse essere moltiplicato per dieci a ogni generazione, sarebbe meglio contare sul reddito e sul risparmio frutto del proprio lavoro: i redditi delle generazioni precedenti sarebbero talmente scarsi in rapporto ai redditi attuali che i patrimoni accumulati dai genitori o dai nonni rappresenterebbero ben poca cosa.

Viceversa, la stagnazione della popolazione – e ancor più la sua diminuzione – accresce il peso del capitale accumulato dalle generazioni precedenti. E lo stesso vale per la stagnazione economica. Con una crescita debole, è abbastanza plausibile che il tasso di rendimento da capitale superi nettamente il tasso di crescita, condizione prima e determinante – lo abbiamo notato nell’Introduzione – per una gravissima disuguaglianza nella distribuzione delle ricchezze a lungo termine. Vedremo come le società patrimoniali osservate nel passato, fortemente strutturate dal patrimonio e dall’eredità – che si trattasse di società rurali tradizionali o di società europee del XIX secolo – possano emergere e durare solo in mondi connotati da una crescita debole. Esamineremo più avanti in quale misura il probabile ritorno di una crescita debole possa avere, se così sarà, conseguenze importanti per la dinamica dell’accumulazione del capitale e della struttura delle disuguaglianze. Ciò riguarda in particolare il possibile ritorno del fenomeno a lungo termine dell’eredità, i cui effetti si stanno già facendo sentire in Europa, e che, nel caso, potrebbe estendersi ad altre parti del mondo. Ecco perché è così importante, nel quadro della nostra ricerca, familiarizzare fin d’ora con la storia della crescita demografica ed economica.

Voglio ricordare anche un altro meccanismo – potenzialmente complementare, anche se meno importante e più ambiguo del primo – per effetto del quale la crescita può sviluppare una riduzione delle disuguaglianze, o quantomeno un rinnovamento più rapido delle élite. Quando la crescita è nulla, o molto debole, le diverse funzioni economiche e sociali, nonché i vari tipi di attività professionali, si riproducono in modo quasi identico da una generazione all’altra. Una crescita continua, anche solo dello 0,5%, dell’1% o dell’1,5% annuo, significa invece che a ogni nuova generazione si creano, in permanenza, nuove funzioni socioeconomiche, che si rendono necessarie nuove competenze. È sufficiente che interessi e capacità umane si trasmettano anche solo in parte da una generazione all’altra – o quantomeno in modo meno automatico e meccanico rispetto alla trasmissione ereditaria del capitale terriero, immobiliare o finanziario – perché la crescita possa favorire l’ascesa sociale di persone i cui genitori non hanno mai fatto parte dell’élite. Questo possibile aumento della mobilità sociale non implica necessariamente una diminuzione delle disuguaglianze di reddito, però limita in linea di principio la riproduzione e la moltiplicazione nel tempo delle disuguaglianze patrimoniali, dunque in certa misura l’ampiezza a lungo termine delle disuguaglianze di reddito.

Dobbiamo comunque diffidare dell’idea – quasi un luogo comune – secondo cui la crescita moderna agirebbe da infallibile rivelatore di talenti e di attitudini individuali. È un argomento che ha una parte di verità, ma che dall’inizio del XIX secolo viene fin troppo utilizzato per giustificare qualsiasi tipo di disuguaglianza, quale ne sia l’ampiezza e l’origine, e per attribuire le più eccelse virtù ai dominatori del nuovo sistema industriale. Charles Dunoyer, economista liberale e prefetto del regno durante la Monarchia di luglio, ebbe occasione di scrivere, in un libro del 1845 intitolato De la liberté du travail (nel quale si oppone naturalmente a ogni legislazione sociale vincolante): “L’effetto del sistema industriale è distruggere le disuguaglianze fittizie; ma per far emergere meglio le disuguaglianze naturali.” Per Dunoyer, le disuguaglianze naturali comprendono le differenti capacità fisiche, intellettuali e morali, e si annidano in quella nuova economia della crescita e dell’innovazione che l’economista vede un po’ ovunque attorno a sé, e che gli fa rifiutare qualsiasi intervento dello Stato: “Le eccellenze sono la fonte di quanto vi sia di più grande e di più utile. Riducete tutto all’uguaglianza e ridurrete tutto all’inazione.”8 In questi primi anni del XXI secolo abbiamo sentito a volte circolare un’idea analoga, secondo la quale la nuova economia dell’informazione permetterebbe ai più talentuosi di moltiplicare la loro produttività. Ma è giocoforza constatare che un argomento del genere viene sovente utilizzato per legittimare disuguaglianze anche estreme e per difendere situazioni di privilegio, senza una grande considerazione per i non privilegiati, e nemmeno per i fatti, e senza realmente cercare di verificare se il principio – un principio di comodo – consenta o meno di spiegare i progressi osservati. Torneremo sull’argomento più avanti.

Il capitale nel XXI secolo
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