Il mistero del valore dei terreni
Per definizione, la legge β = s/g riguarda soltanto le forme di capitale suscettibili di accumulo, e non prende in considerazione il valore delle risorse naturali pure, in particolare delle terre vergini, quelle nelle quali l’uomo non ha ancora introdotto alcun miglioramento. Il fatto che la legge β = s/g consenta di dar conto della totalità o quasi degli stock di capitale osservati nel 2010 (tra l’80% e il 100% a seconda dei paesi) fa pensare che le terre vergini rappresentino solo una minima parte del capitale nazionale. Ma qual è, esattamente, questo valore? I dati disponibili non consentono di rispondere in modo così preciso.
Considereremo innanzitutto il caso dei terreni agricoli nelle società rurali tradizionali. È molto difficile determinare con precisione quale quota del loro valore corrisponda al gran numero di investimenti e di migliorie apportate nel corso dei secoli – specie sotto forma di dissodamenti, drenaggi, recinzioni, sistemazioni diverse –, e quale quota corrisponda al valore vergine delle terre, così come esistevano prima dello sfruttamento da parte dell’uomo. Pare acquisito, comunque, che gli investimenti e i miglioramenti ne costituiscano la quota maggiore. Nel XVIII secolo, nel Regno Unito e in Francia, il valore dei terreni agricoli equivaleva a quattro annualità di reddito nazionale e, secondo le stime realizzate all’epoca, possiamo valutare che gli investimenti e le migliorie rappresentassero almeno i tre quarti, se non più, del loro valore.33 Dopo le stime realizzate all’epoca si può presumere che il valore annuo dei vari lavori di dissodamento, drenaggio ecc. equivalesse da solo a somme assai rilevanti, dell’ordine del 3-4% del reddito nazionale, e anche più. Il valore dei terreni vergini rappresentava al massimo un anno di reddito nazionale, e probabilmente meno di metà annualità. Questa conclusione si basa soprattutto sul fatto che il valore annuale dei diversi lavori di dissodamento, drenaggio ecc. costituiva da solo somme molto importanti, nell’ordine del 3-4% del reddito nazionale. Ebbene: con una crescita relativamente lenta, inferiore all’1% annuo, il valore cumulativo di tali investimenti equivale in pratica al valore totale dei terreni agricoli (o addirittura lo supera).34
È interessante notare che anche Thomas Paine, nella sua famosa proposta di “Giustizia agraria” presentata nel 1795 ai parlamentari francesi, giungeva alla conclusione che la quota non accumulata del patrimonio nazionale (unimproved land) corrispondeva a circa un decimo del patrimonio nazionale, ossia a poco più di una mezza annualità di reddito nazionale.
Occorre tuttavia insistere sul fatto che si tratta di stime alquanto approssimative. Quando il ritmo di crescita annua è basso, anche lievi variazioni nel tasso d’investimento provocano enormi differenze nel valore a lungo termine del rapporto capitale/reddito β = s/g. Il punto importante da tener presente è che la maggior parte del capitale nazionale nelle società tradizionali era già allora fondata sull’accumulazione e sull’investimento: nulla è davvero cambiato, salvo forse il fatto che il deprezzamento del capitale terriero era allora molto inferiore a quello del capitale immobiliare e produttivo di oggi, il quale, con molta più frequenza, deve essere sostituito e mantenuto – il che concorre forse a dare l’impressione di un capitale più “dinamico”. In ogni caso, tenendo conto dei dati molto limitati e imprecisi di cui disponiamo relativamente all’investimento nelle società rurali tradizionali, è difficile andare molto oltre.
In particolare, sembra impossibile fare un raffronto preciso tra il valore delle terre vergini alla fine del XX secolo e quello dell’inizio del XXI. L’obiettivo principale oggi riguarda i terreni urbani: nel Regno Unito e in Francia, i terreni agricoli valgono meno del 10% del reddito nazionale. Il problema è che è difficile, oggi, individuare il valore dei terreni urbani vergini, indipendente non solo dagli edifici e dalla costruzioni ma anche dalle infrastrutture e dalle sistemazioni che li rendono attrattivi, com’era difficile individuarlo nel XVIII secolo per i terreni agricoli. Secondo le nostre stime, i flussi annui degli investimenti effettuati negli ultimi decenni consentono al massimo di valutare correttamente la quasi totalità del valore dei patrimoni – soprattutto immobiliari – del 2010. Per il resto, la crescita del rapporto capitale/reddito non è spiegabile con l’aumento del valore dei terreni urbani vergini, che, a prima vista, sembra più o meno analogo a quello dei terreni agricoli vergini nel XVIII secolo: tra una mezza annualità e un’annualità di reddito nazionale. Insomma, i margini d’incertezza sono troppo elevati.
Ciò posto, vanno precisati almeno due punti. Primo. Nei paesi ricchi il valore totale della capitalizzazione patrimoniale – in particolare immobiliare – si giustifica abbastanza bene con l’accumulazione dei flussi di risparmio e d’investimento, considerando anche l’esistenza di forti plusvalenze locali legate a spinte di agglomerazione in determinati centri, in particolare nelle grandi capitali. Non avrebbe molto senso pretendere di spiegare l’aumento del valore degli immobili sugli Champs Élysées, o più in generale a Parigi, solo con l’aumento dei flussi d’investimento. Più semplicemente, le nostre stime suggeriscono che i fortissimi rialzi fondiari in determinate zone sono stati in gran parte compensati da ribassi fondiari in altre zone divenute meno interessanti, per esempio in città di media grandezza o in un certo numero di quartieri degradati.
Secondo. Il fatto che, nei paesi ricchi, l’aumento del valore dei terreni vergini non sembri giustificare una quota essenziale della crescita storica del rapporto capitale/reddito, non implica in alcun modo che non la possa giustificare in futuro. Da un punto di vista teorico, non esiste alcuna forza in grado di garantire una stabilità a lungo termine del valore dei terreni, e ancor meno delle risorse naturali nel loro complesso. Riprenderemo in esame il problema quando analizzeremo la dinamica del patrimonio e degli attivi esteri detenuti dai paesi produttori di petrolio.35
1 Il rapporto capitale/reddito europeo indicato nei grafici 5.1 e 5.2 è stato stimato calcolando la media dei dati disponibili per le quattro principali economie del continente (Germania, Francia, Regno Unito, Italia), valutate sulla base del reddito nazionale di ciascun paese. In totale, i quattro paesi rappresentano più dei tre quarti del PIL dell’Europa occidentale, e quasi i due terzi del PIL europeo. Il computo di altri paesi (in particolare la Spagna) porterebbe a una crescita ancora più forte del rapporto capitale/reddito nel corso degli ultimi decenni. Cfr. allegato tecnico.
2 La formula β = s/g si legge “β uguale a s diviso g”. E ancora, “β = 600%” equivale a “β = 6”, come “s = 12%” equivale a “s = 0,12” e “g = 2%” equivale a “g = 0,02”. Il tasso di risparmio s indica il risparmio effettivamente nuovo – dunque al netto della svalutazione del capitale – diviso per il reddito nazionale. Torneremo più avanti su questo punto.
3 A volte si indica con g il tasso di crescita del reddito nazionale pro capite e con n il tasso di crescita della popolazione, nel qual caso la formula si scriverebbe così: β = s/(g + n). Per non complicare la formula, scegliamo di indicare con g il tasso di crescita globale dell’economia e di mantenere la formula β = s/g.
4 Il 12% di reddito equivale a 12/6 = 2% del capitale. Più in generale, un tasso di risparmio uguale a s e un rapporto capitale/reddito uguale a β implicano che lo stock di capitale cresca a un tasso uguale a s/β.
5 L’elementare equazione matematica che descrive la dinamica del rapporto capitale/reddito β e la convergenza verso β = s/g sono inserite nell’allegato tecnico.
6 Nel 1970, in Germania 2,2 annualità e negli Stati Uniti 3,4. Per i dati completi, cfr. tabella S5.1.
7 Nel 2010, in Germania e negli Stati Uniti 4,1 annualità, in Giappone 6,1, in Italia 6,8. I valori indicati per ciascun anno sono medie annue (per esempio, il valore indicato per il 2010 è la media tra i patrimoni stimati il 1° gennaio 2010 e il 1° gennaio 2011). In ogni caso, le prime stime disponibili per il periodo 2012-13 non si discostano di molto. Cfr. allegato tecnico.
8 In particolare sarebbe sufficiente cambiare l’indice di prezzo (esistono più indici differenti, e nessuno è perfetto), e vedremmo invertirsi le posizioni tra paese e paese. Cfr. allegato tecnico.
9 Cfr. grafico S5.1.
10 Più esattamente: nei dati osservati, il rapporto capitale privato/reddito nazionale è passato dal 299% nel 1970 al 601% nel 2010, mentre, stando ai flussi di risparmio accumulati, avrebbe dovuto passare dal 299% al 616%. L’errore è dunque del 15% del reddito nazionale su una crescita di circa il 300%, ossia appena del 5%: in Giappone, tra il 1970 e il 2010, i flussi di risparmio spiegano il 95% della crescita del rapporto capitale privato/reddito nazionale. Per i calcoli dettagliati relativi a ciascun paese, cfr. allegato tecnico.
11 Quando un’impresa ricompra le proprie azioni, permette agli azionisti di realizzare una plusvalenza, in genere meno tassata dei dividendi (nel caso in cui l’impresa abbia utilizzato la stessa somma per distribuire dividendi). È importante rendersi conto che accade lo stesso quando ciascuna impresa compra le azioni di altre imprese e che nell’insieme il settore imprese consente di realizzare plusvalenze in favore dei singoli, grazie all’acquisto di titoli finanziari.
12 Si può anche esprimere la legge β = s/g indicando con s il tasso di risparmio lordo (e non netto): in tal caso la legge diventa β = s/(g + δ) (indicando con δ il tasso di svalutazione del capitale, espresso in % dello stock di capitale). Per esempio, se il tasso di risparmio lordo equivale a s = 24%, e se il tasso di svalutazione del capitale equivale a δ = 2%, per un tasso di crescita g = 2%, si ottiene un rapporto capitale/reddito β = s/ (g + δ) = 600%. Cfr. allegato tecnico.
13 Con una crescita g = 2%, è necessaria una spesa netta in beni durevoli pari a s = 1% del reddito nazionale annuo per accumulare uno stock di beni durevoli equivalente a β = s/g = 50% del reddito nazionale. Tra l’altro, i beni durevoli devono essere sostituiti di frequente, per cui la spesa lorda è anche di molto superiore. Per esempio, sostituendoli in media ogni cinque anni, si determina una spesa lorda in beni durevoli del 10% del reddito nazionale annuo solo per sostituire i beni obsoleti, e dell’11% annuo per generare una spesa netta dell’1% e uno stock di equilibrio del 50% del reddito nazionale (sempre per una crescita g = 2%). Cfr. allegato tecnico.
14 Il valore totale dello stock di oro mondiale sul lungo periodo è sceso (nel XIX secolo al 2-3% del totale dei patrimoni privati, alla fine del XX secolo a meno dello 0,5%), ma tende a risalire nei periodi di crisi (l’oro funge da valore o bene rifugio), e attualmente raggiunge l’1,5% del totale dei patrimoni privati, di cui circa un quinto detenuto dalle banche centrali. Si tratta di variazioni considerevoli, ma tutto sommato secondarie in rapporto allo stock di capitale nel suo complesso. Cfr. allegato tecnico.
15 Anche se non fa troppa differenza, per uno scrupolo di coerenza abbiamo adottato le stesse convenzioni per le serie di dati storici presentati nei capitoli 3 e 4 e per quelle presentate qui per il periodo 1970-2010: dal computo del patrimonio sono stati esclusi i beni durevoli, mentre i beni di valore sono stati inclusi nella categoria “altro capitale interno”.
16 Nella Parte quarta del volume torneremo sulla questione delle imposte, dei trasferimenti e delle redistribuzioni operati dal potere pubblico, in particolare sulla questione del loro impatto sulle disuguaglianze e sull’accumulazione e distribuzione del capitale.
17 Cfr. allegato tecnico.
18 L’investimento pubblico netto è in genere piuttosto basso (attorno allo 0,5-1% del reddito nazionale, di cui l’1,5-2% di investimento pubblico lordo e lo 0,5-1% di deprezzamento del capitale pubblico), per cui, sovente, il risparmio pubblico negativo non è molto lontano dal deficit pubblico (con alcune eccezioni: in Giappone l’investimento pubblico è più forte, con l’effetto di un risparmio pubblico leggermente positivo, malgrado un deficit pubblico consistente). Cfr. allegato tecnico.
19 La possibile sottovalutazione è legata allo scarso numero di transazioni di quote di attivo pubblico nel corso del periodo. Cfr. allegato tecnico.
20 Tra il 1870 e il 2010, il tasso medio di crescita del reddito nazionale è in Europa di circa il 2-2,2% (di cui lo 0,4-0,5% per la crescita della popolazione) e negli Stati Uniti del 3,4% (di cui l’1,5% per la crescita della popolazione). Cfr. allegato tecnico.
21 Una società non quotata incontra quindi molta difficoltà a vendere delle quote, perché le transazioni sono poco numerose – per cui la vendita può richiedere molto tempo prima di trovare un acquirente interessato –, può veder scendere la propria valutazione anche del 10% o del 20% rispetto a una società analoga quotata in borsa, per la quale è invece sempre possibile trovare, in giornata, un acquirente o un venditore interessati.
22 Le norme internazionali armonizzate utilizzate per i bilanci nazionali – norme che noi utilizziamo in questa sede – prescrivono che gli attivi (e i passivi) siano sempre valutati secondo il valore di mercato alla data del bilancio (vale a dire il valore che potrebbe essere ottenuto se l’impresa decidesse di liquidare i propri attivi e di venderli; questo valore è espresso facendo riferimento, all’occorrenza, a transazioni recenti). Le norme contabili private utilizzate dalle imprese per pubblicare il proprio bilancio non sono esattamente le stesse dei bilanci nazionali e variano a seconda dei paesi, il che pone non pochi problemi, sia per la regolamentazione finanziaria sia per la sorveglianza sia per il fisco. Torneremo su questi problemi nella Parte quarta del volume.
23 Cfr., per esempio, Profil financier du CAC 40, Rapporto dello studio di esperti contabili Ricol Lasteyrie, 26 giugno 2012. Lo stesso tipo di variazioni di enorme entità – della “Q di Tobin” – si ritrova in tutti i paesi e in tutti i mercati azionari. [Il CAC 40 è il principale indice della Borsa di Parigi; N.d.T.]
24 Cfr. allegato tecnico.
25 L’eccedenza commerciale raggiunge nel 2010 e nei primi anni a seguire in Germania il 6% del PIL, il che consente una rapida accumulazione di crediti rispetto al resto del mondo. A titolo di paragone, l’eccedenza cinese raggiunge solo il 2% del PIL (le due eccedenze, tedesca e cinese, raggiungono insieme i 170-180 miliardi di euro annui, ma il PIL cinese è tre volte più alto: circa 10.000 miliardi di euro invece di 3000 miliardi di euro). Si può comunque notare che cinque annualità di eccedenze tedesche equivalgono al capitale immobiliare parigino, e che cinque annualità supplementari possono consentire l’acquisto dell’intero CAC 40 (circa 800-900 miliardi per ogni acquisto). La fortissima eccedenza tedesca sembra però dipendere più dagli alti tassi di competitività che da un obiettivo esplicito di accumulazione. Si può quindi pensare che la domanda interna aumenterà, e che l’eccedenza si ridurrà negli anni a venire. Nei grandi paesi produttori di petrolio, che si collocano chiaramente su una curva di accumulo di attivi esteri, l’eccedenza commerciale supera il 10% del PIL (in Arabia Saudita o in Russia), ossia supera di molte decine percentuali i piccoli paesi che esportano petrolio. Cfr. cap. 12 e allegato tecnico.
26 Cfr. grafico supplementare S5.2.
27 Nel caso della Spagna, tutti, nei primi anni del XXI secolo, avevano notato la fortissima crescita degli indici immobiliari e finanziari. Ma, in mancanza di precisi punti di riferimento, è molto difficile determinare in quale momento le valutazioni iniziano a diventare davvero eccessive. Il rapporto capitale/reddito ha il vantaggio di essere un indicatore in grado di offrire un punto di riferimento per stabilire confronti nel tempo e nello spazio.
28 Cfr. grafici S5.3 e S5.4. Occorre anche segnalare che i bilanci pubblicati dalle banche centrali e dagli istituti di statistica riguardano unicamente gli attivi finanziari primari (crediti, azioni, obbligazioni e titoli diversi) e non i prodotti derivati (riconducibili a contratti di assicurazione indicizzati su questi attivi primari, o addirittura a vere e proprie scommesse, a seconda di come si consideri il problema), i quali farebbero salire il totale a livelli ancora più elevati (tra le venti e le trenta annualità di reddito nazionale, a seconda delle definizioni adottate). È però importante rendersi conto che queste masse di attivi e passivi finanziari, oggi di gran lunga più alte rispetto a tutti i livelli osservati nel passato (nel XIX secolo e fino alla prima guerra mondiale, il totale delle attività e delle passività finanziarie non superavano le quattro-cinque annualità di reddito nazionale), non hanno per definizione alcun impatto sui livelli di patrimonio netto (così come l’importo delle scommesse raggiunto in occasione di un grande evento sportivo non ha alcuna incidenza sul livello del patrimonio nazionale). Cfr. allegato tecnico.
29 Per esempio, gli attivi finanziari detenuti in Francia dal resto del mondo equivalgono, nel 2010, al 310% del reddito nazionale, e quelle detenute dai residenti francesi nel resto del mondo equivalgono al 300% del reddito nazionale, con una posizione negativa del 10%. Negli Stati Uniti la posizione negativa, equivalente al 20% del reddito nazionale, corrisponde ad attivi finanziari equivalenti al 120% detenuto dal resto del mondo negli Stati Uniti e il 100% detenuto dai residenti americani all’estero. Per il dettaglio dei dati paese per paese, cfr. grafici S5.5-S5.11.
30 Si noterà, in proposito, che una differenza di fondo tra la bolla giapponese e quella spagnola è che la Spagna si trova attualmente con una posizione patrimoniale negativa dell’ordine di un’annualità di reddito nazionale (il che complica seriamente la situazione del paese), mentre il Giappone ha una posizione positiva della stessa entità. Cfr. allegato tecnico.
31 In particolare, se si considerassero i fortissimi deficit commerciali americani, la posizione netta degli Stati Uniti dovrebbe essere molto più negativa di quanto effettivamente non sia. Il divario si piega sia con l’altissimo rendimento ottenuto sugli attivi esteri americani (principalmente azioni) sia con il basso rendimento pagato sui passivi (principalmente titoli di Stato). Cfr. in proposito ai lavori di P.-O. Gourinchas e H. Rey citati in allegato. Per contro, la posizione netta tedesca dovrebbe essere più elevata di quanto non sia, e il fenomeno si spiega con i bassi rendimenti ottenuti sugli investimenti esteri (il che può forse spiegare in parte l’attuale diffidenza tedesca). Per una scomposizione globale dell’accumulo degli attivi esteri da parte dei diversi paesi ricchi nel periodo 1970-2010, separando gli effetti della bilancia commerciale dagli effetti di rendita del portafoglio estero, cfr. allegato tecnico (in particolare tabella S5.13).
32 Per esempio, è probabile che una parte significativa del deficit commerciale americano corrisponda semplicemente a trasferimenti fittizi a succursali di imprese americane localizzate in territori fiscalmente meno impositivi, per essere poi rimpatriati sotto forma di profitti realizzati all’estero (il che ristabilisce l’equilibrio della bilancia dei pagamenti). Ecco fino a che punto questi puri giochi di scritture di bilancio possano falsare l’analisi dei più elementari fenomeni economici.
33 È difficile fare dei raffronti con le società passate, ma le rare stime disponibili fanno pensare che il valore dei terreni possa, in certe epoche, salire a livelli ancora più elevati: per esempio, nell’antica Roma, a sei annualità di reddito nazionale. Cfr., in proposito, R. Goldsmith, Pre-Modern Financial Systems: A Historical Comparative Study, Cambridge, Cambridge University Press, 1987, p. 58. Stime relative alla mobilità intergenerazionale patrimoniale nelle piccole società primitive (M. Borgerhoff Mulder e S. Bowles, “Intergenerational Wealth Transmission and the Dynamics of Inequality in Small-Scale Societies”, in Science, 2009) suggeriscono che l’entità del patrimonio trasmissibile varia moltissimo a seconda dell’attività economica praticata (cacciatori, pastori, coltivatori…).
34 Cfr. allegato tecnico.
35 Cfr. Parte terza, cap. 6.