La natura della ricchezza: dalla letteratura alla realtà
Quando, all’inizio del XIX secolo, Balzac o Jane Austen scrivono i loro romanzi, la natura dei patrimoni è, di per sé, relativamente chiara a tutti. Il patrimonio sembra essere lì, a disposizione per produrre rendite, vale a dire redditi sicuri e costanti per chi li detiene, e per questa ragione hanno normalmente la forma di proprietà terriere e di titoli del debito pubblico. Papà Goriot possiede titoli di Stato, la piccola proprietà dei Rastignac è costituita da terreni agricoli. Non cambia di molto, se non per l’entità davvero vastissima, la rendita di cui gode, a Norland Park, John Dashwood in Ragione e sentimento, e da cui si appresta a escludere le sorellastre Elinor e Marianne, le quali dovranno accontentarsi degli interessi prodotti dal piccolo capitale lasciato loro dal padre sotto forma di titoli di Stato. Nel romanzo classico del XIX secolo, il patrimonio è onnipresente, e, a prescindere dalla sua entità e dal suo detentore, assume perlopiù due forme: terreni o titoli di Stato.
Viste dal XXI secolo, queste forme di patrimonio possono apparire arcaiche, ed è forte la tentazione di attribuirle a un lontano passato, considerato morto e sepolto, privo di rapporti con le realtà economiche e sociali del nostro tempo, in cui il capitale dovrebbe essere per sua natura ben più “dinamico”. Di fatto, i personaggi dei romanzi del XIX secolo appaiono spesso come gli archetipi del rentier, benestante che vive di rendita, figura bandita dalla nostra modernità democratica e meritocratica. Eppure, esiste un obiettivo più naturale del chiedere a un capitale di produrre un reddito sicuro e costante? Non è questo, in sostanza, lo scopo di un mercato del capitale a suo modo “perfetto”, nel senso degli economisti? Il pensare che lo studio dei patrimoni del XIX secolo sia privo di insegnamenti per il mondo d’oggi costituisce in realtà, dal nostro punto di vista, un grave errore.
Se infatti guardiamo le cose un po’ più da vicino, le differenze tra il mondo del XIX secolo e quello del XXI sono meno evidenti di quanto possa sembrare. Innanzitutto, le due forme di patrimonio – terreni e titoli del debito pubblico – pongono problemi assai diversi, e non dovrebbero essere semplicemente giustapposte come, per comodità di racconto, fanno gli scrittori del XIX secolo. Il titolo del debito pubblico, in sostanza, rappresenta soltanto il credito che una parte del paese (coloro che percepiscono gli interessi) vanta sull’altra (quelli che pagano le tasse): per cui sarebbe bene escluderlo dal patrimonio nazionale e includerlo unicamente nel patrimonio privato. Tra l’altro, il problema complesso dell’indebitamento degli Stati e della natura del patrimonio corrispondente, concerne il mondo d’oggi come quello dell’Ottocento, e lo studio del passato può illuminarci su un realtà oggi così decisiva. Infatti, anche se il debito pubblico, ai giorni nostri, non ha neanche lontanamente raggiunto il livello astronomico dell’inizio del XIX secolo, quantomeno nel Regno Unito, in Francia e in molti altri paesi, non è tuttavia molto distante da quei record storici, e nel mondo attuale suscita ancora più sconcerto che in epoca napoleonica. Il processo d’intermediazione finanziaria (si colloca denaro in una banca, la quale poi lo investe altrove) è diventato in effetti talmente complesso che spesso si dimentica chi possiede che cosa. Siamo indebitati, certo – come dimenticarlo? i media ce lo ricordano ogni giorno –, ma con chi, esattamente? Nel XIX secolo, i rentiers del debito pubblico erano chiaramente identificabili; oggi, chi sono, costoro? È un mistero che dovremo chiarire, e lo studio del passato ci aiuterà a farlo.
In secondo luogo va sottolineata un’ulteriore complicazione, ancor più significativa: nel romanzo classico e nel mondo dell’Ottocento esistono e svolgono un ruolo importante molte altre forme di capitale, spesso assai “dinamiche”. Dopo un inizio come operaio pastaio, papà Goriot ha fatto fortuna come mercante di grani e fabbricante di pasta. Durante le guerre rivoluzionarie e napoleoniche ha saputo scovare meglio di chiunque altro le farine migliori, perfezionare le tecniche di produzione della pasta, organizzare le reti di distribuzione e i punti vendita, in modo da destinare il prodotto corretto e adeguato nel posto giusto al momento giusto. Solo dopo aver fatto fortuna come imprenditore, e aver venduto le sue quote negli affari, come farebbe un fondatore di start-up del XXI secolo che esercita le proprie stock-option e intasca il guadagno ottenuto, è nelle condizioni di reimpiegare tutto il ricavato in investimenti più sicuri, all’occorrenza in titoli pubblici a scadenza illimitata, e grazie a questo capitale potrà permettersi di far sposare le figlie a esponenti della migliore società parigina dell’epoca. Sul letto di morte, nel 1821, abbandonato da Delphine e Anastasie, papà Goriot continua a sognare favolosi investimenti nel mercato dei cereali a Odessa.
César Birotteau, altro eroe balzachiano, ha fatto invece fortuna come profumiere. È un geniale inventore di prodotti di bellezza – la Double Pâte des sultanes, l’Eau carminative ecc. –, che secondo Balzac fanno furore nella Francia di fine Impero e durante la Restaurazione. Ma tutto ciò non gli basta: al momento di ritirarsi, vuole triplicare il proprio capitale con un’audace operazione di speculazione immobiliare nel quartiere della Madeleine, in pieno sviluppo nella Parigi degli anni venti e trenta dell’Ottocento. César respinge i saggi consigli della moglie, la quale vorrebbe investire i guadagni della profumeria in buoni terreni nei pressi di Chignon e in titoli pubblici. E così César finirà rovinato.
Gli eroi di Jane Austen, ricchi proprietari terrieri per eccellenza, più legati al mondo rurale di quelli di Balzac, sono più saggi solo in apparenza. In Mansfield Park, lo zio di Fanny, Sir Thomas, deve partire per le Antille e soggiornarvi per più di un anno con il figlio maggiore, per rimettere ordine nei propri affari e nei propri investimenti. E, una volta tornato a Mansfield, deve di nuovo partire in tutta fretta e soggiornare nelle Antille altri lunghi mesi: non è facile, nel primo decennio dell’Ottocento, amministrare piantagioni a migliaia di chilometri di distanza. Si è ancora ben lontani dalla tranquilla rendita fondiaria o dei titoli pubblici.
Allora: capitale tranquillo o investimenti arrischiati? Dobbiamo davvero concludere che non è cambiato nulla da allora a oggi? Quali sono, in definitiva, le vere profonde trasformazioni nella struttura del capitale dopo il XVIII secolo? Al di là delle evidenti differenze negli aspetti concreti – dalle farine di papà Goriot ai tablet di Steve Jobs, dagli investimenti fondiari nelle Antille dell’Ottocento agli investimenti cinesi o sudafricani del XXI secolo –, non sarà che le strutture profonde del capitale sono rimaste sostanzialmente le medesime? Il capitale non è mai affidabile: è sempre a rischio e di natura imprenditoriale, quantomeno nella fase iniziale; e tende al tempo stesso a trasformarsi in rendita man mano che si accumula in proporzioni illimitate – è, secondo logica, la sua vocazione, il suo destino. Da dove nasce, allora, l’impressione diffusa che le disuguaglianze sociali nelle nostre società moderne siano comunque ben diverse da quelle che caratterizzavano l’epoca di Balzac e di Austen? Si tratta davvero solo di discorsi, senza alcuna connessione con la realtà, oppure è possibile individuare fattori oggettivi capaci di spiegare in che cosa la crescita moderna avrebbe reso il capitale strutturalmente meno legato alla rendita e più “dinamico”?