La disuguaglianza patrimoniale estrema: una condizione della civiltà in una società povera?
È interessante notare che gli scrittori del XIX secolo non si limitano a descrivere con precisione la gerarchia dei patrimoni e dei redditi del loro tempo. Spesso danno una visione molto concreta e ravvicinata dei modelli di vita, di quelle realtà quotidiane che incidono direttamente sui diversi livelli di reddito. Di passaggio, si vede affiorare, a volte, una qualche giustificazione dell’estrema disuguaglianza patrimoniale propria dell’epoca, si avverte, tra le righe, che l’autore dà per scontato il fatto che solo la disuguaglianza può consentire a un piccolo gruppo sociale di vivere senza preoccuparsi d’altro che della propria esistenza: la disuguaglianza viene rappresentata quasi come una condizione necessaria della civiltà.
Jane Austen illustra più e meglio degli altri, e con particolare minuzia, come funziona la vita quotidiana dell’epoca: le risorse necessarie per nutrirsi, vestirsi, metter su casa, spostarsi. In mancanza di ogni tecnologia moderna, tutto costa carissimo, richiede tempo e soprattutto personale, indispensabile per procurare il cibo (la cui conservazione è problematica) e provvedere agli indumenti (l’abito più modesto può valere parecchi mesi di reddito medio, o anche parecchi anni). Per spostarsi occorrono cavalli, equipaggi – i quali richiedono a loro volta altro personale che si occupi delle vetture –, nutrimento per le bestie e così via. Il lettore può accorgersi che all’inizio del XIX secolo, se si dispone di una rendita soltanto tre o cinque volte superiore al reddito medio, si vive obiettivamente male, nel senso che si è costretti a trascorrere la maggior parte del tempo a preoccuparsi delle proprie necessità quotidiane. E se qualcuno gradisse disporre di libri, strumenti musicali, gioielli o abiti da ballo, dovrebbe almeno godere di una rendita venti o trenta volte superiore al reddito medio dell’epoca.
Nella Parte prima abbiamo già notato quanto sia difficile e semplicistico confrontare i poteri d’acquisto sul lunghissimo periodo, per via del radicale cambiamento, in valori multidimensionali, della struttura degli stili di vita e dei prezzi in vigore. Per cui non è possibile riassumere con un unico indicatore i mutamenti avvenuti. È però possibile tener presente che, secondo gli indici ufficiali, il potere d’acquisto medio per abitante in vigore nel Regno Unito o in Francia attorno al 1800 era circa dieci volte più basso che nel 2010. In altri termini, con una rendita venti o trenta volte superiore al reddito medio del 1800, non si viveva meglio di quanto oggi non si viva con una rendita due o tre volte superiore al reddito medio, e con una rendita da cinque a dieci volte superiore al reddito medio del 1800 ci si trovava in una fascia intermedia tra il salario minimo e il reddito medio del mondo di oggi.
Con ciò, i personaggi balzachiani e austeniani ricorrono senza risparmio a decine di domestici, dei quali, solitamente, non conosciamo neppure il nome. Qualche volta i narratori si permettono di prendere in giro le pretese e i bisogni eccessivi dei loro personaggi, come quando Marianne, vedendosi già bellamente accasata a Willoughby, spiega arrossendo che, secondo i suoi calcoli, non è facile vivere con meno di 2000 sterline annue (oltre sessanta volte il reddito medio dell’epoca). “Sono sicura di non essere stravagante nelle mie esigenze. Non si potrebbe mantenere con meno un numero conveniente di domestici, una carrozza, magari due cavalli da caccia,”44 si sbilancia Marianne, a cui la sorella Elinor non può non replicare che sta francamente esagerando. Lo stesso Vautrin spiega che ci vuole un reddito di 25.000 franchi (superiore di cinquanta volte al reddito medio) per vivere con un minimo di dignità: e insiste, con molti dettagli, sul costo dei vestiti, dei domestici e degli spostamenti. Nel suo caso, non c’è nessuno che gli dica che sta esagerando, ma Vautrin è talmente cinico che la sua tendenza all’esagerazione è del tutto evidente per i lettori.45 Lo stesso tipo di affarismo senza complessi, con i medesimi ordini di grandezza in merito all’idea di agiatezza, si trova nei racconti di viaggio di Arthur Young.46
Quali che siano gli eccessi dei loro personaggi, i romanzi del XIX secolo ci descrivono un mondo in cui la disuguaglianza è in un certo senso necessaria: se non esistesse una minoranza dotata di un patrimonio più che sufficiente, tutti dovrebbero pensare unicamente alla propria sopravvivenza. È però una visione della disuguaglianza che ha il buon gusto di non presentarsi come meritocratica. Si preferisce far parte di una determinata minoranza per vivere come meglio si può, ma nessuno intende sostenere che tale minoranza sia più meritevole o più virtuosa del resto della popolazione. D’altronde, in un universo del genere, è chiarissimo che solo il possesso di un patrimonio consente di acquisire un grado di agiatezza sufficiente per vivere con dignità: il fatto di avere un diploma o una specializzazione può certo consentire di produrre e dunque di guadagnare cinque o sei volte più della media, ma non di più. La società meritocratica moderna, specie in America, è invece spietata con i perdenti, poiché intende dire la sua su ogni aspetto della vita, sulla giustizia, sulla virtù, sul merito e, nel caso specifico, sull’insufficienza della loro produttività.47