Capitale nazionale e investimenti esteri netti nei paesi ricchi
Come si è già notato nei capitoli precedenti, gli enormi investimenti esteri detenuti dai paesi ricchi alla vigilia della prima guerra mondiale, in particolare dal Regno Unito e dalla Francia, sono del tutto scomparsi in seguito alle catastrofi del periodo 1914-45, e successivamente non sono mai più ritornati a livelli così alti. Di fatto, se esaminiamo i livelli raggiunti dal capitale nazionale e dal capitale estero nei paesi ricchi tra il 1970 e il 2010, viene naturale concludere che gli attivi esteri rivestono un’importanza limitata: a volte sono leggermente positivi, a volte leggermente negativi, a seconda dei paesi e dei periodi, ma in genere sono, rispetto al capitale nazionale, piuttosto bassi. In altri termini, la forte crescita del capitale nazionale nei paesi ricchi rispecchia in primo luogo la crescita del capitale interno in tutti paesi, e gli investimenti esteri netti sembrano svolgere, a prima vista, un ruolo relativamente secondario (cfr. grafico 5.7).
Grafico 5.7.
Il capitale nazionale nei paesi ricchi,
1970-2010
Nel 2010 gli attivi esteri netti detenuti dal Giappone e dalla Germania sono compresi tra lo 0,5% e l’1% annuo del reddito nazionale.
Fonti e dati: cfr. http://piketty.pse.ens.fr/capital21c.
Una conclusione del genere sarebbe tuttavia esagerata. Si nota infatti che nel corso degli ultimi decenni, in particolare durante i primi anni del XXI secolo, il Giappone e la Germania hanno accumulato attivi esteri netti estremamente significativi (in gran parte meccanicamente come conseguenza delle eccedenze commerciali). Dagli anni dieci del XXI secolo gli attivi esteri netti detenuti dal Giappone raggiungono circa il 70% del reddito nazionale nipponico, e le posizioni nette all’estero in possesso alla Germania sono prossime al 50% del reddito nazionale tedesco. Sono certamente posizioni attive molto inferiori rispetto agli attivi esteri detenuti alla vigilia della prima guerra mondiale dal Regno Unito, quasi due annualità di reddito nazionale, o dalla Francia, più di un’annualità. Ma, tenuto conto della rapidità della curva dell’accumulazione, viene naturale interrogarsi su come potrebbe evolversi il processo in corso.25 In quale misura, durante il XXI secolo, determinati paesi diventeranno proprietà di altri? Si arriverà a uguagliare, o a superare, le considerevoli attività estere osservate durante l’età coloniale?
Se vorremo trattare correttamente la questione, dovremo comprendere nella nostra analisi anche i paesi produttori di petrolio e i paesi emergenti (a cominciare dalla Cina), per i quali disponiamo di dati storici molto ridotti – da qui la limitata rilevanza che abbiamo loro assegnato finora – mentre invece disponiamo per questi paesi di fonti molto più soddisfacenti per l’attuale periodo. E dovremo inoltre considerare la disuguaglianza dei patrimoni a livello individuale e all’interno di ciascun paese, e non soltanto tra paese e paese. Riprenderemo questo aspetto nella Parte terza del volume, quando affronteremo il tema della dinamica della distribuzione mondiale del capitale.
Per il momento, ci limitiamo a notare che la logica della legge β = s/g può far registrare, per effetto degli automatismi, fortissimi squilibri internazionali in termini di posizioni patrimoniali, com’è chiaramente dimostrato dal caso giapponese. Per un analogo livello di sviluppo, lievi differenze nel tasso di crescita (specie demografica) o nel tasso di risparmio possono far accadere che determinati paesi si trovino con un rapporto capitale/reddito potenziale molto più elevato di altri, nel qual caso sarebbe ovvio aspettarsi che i primi investano massicciamente nei secondi – eventualità che comporterebbe significative tensioni politiche. Il caso giapponese esemplifica anche un secondo tipo di rischio, possibile nel caso in cui il rapporto capitale/reddito d’equilibrio β = s/g raggiunga un livello troppo alto. Se i residenti del paese in questione coltivano una forte preferenza per gli attivi interni, per esempio per il settore immobiliare giapponese, può succedere che i prezzi degli attivi nazionali tocchino livelli mai raggiunti prima. E da questo punto di vista è interessante notare che il record giapponese del 1990 è stato recentemente battuto dalla Spagna, paese nel quale il totale dei patrimoni privati netti è arrivato, alla vigilia della crisi degli anni 2008 e 2009, a ben otto annualità di reddito nazionale, ovvero a un’annualità in più rispetto al Giappone del 1990. La bolla spagnola ha iniziato a sgonfiarsi in fretta, tra il 2010 e il 2011, come fece la bolla giapponese subito all’inizio degli anni novanta.26 Ed è probabile che altre bolle, anche più spettacolari, si formino in futuro, nel caso in cui il rapporto capitale/reddito potenziale β = s/g tocchi nuovi picchi. Si noterà l’interesse di illustrare in questo modo il processo storico del rapporto capitale/reddito, e sviluppare i bilanci nazionali in stock e flussi. È un modo che potenzialmente consente di individuare in tempo certi eccessi di valutazione e di applicare quindi un’adeguata politica finanziaria, improntata a una maggiore cautela, in modo da smorzare gli entusiasmi speculativi degli istituti finanziari del paese interessato.27
Occorre inoltre notare che posizioni nette ridotte possono nascondere enormi posizioni attive lorde. Di fatto, una caratteristica dell’attuale globalizzazione finanziaria è che ciascun paese è in gran parte posseduto dagli altri, il che porta non soltanto a offuscare le percezioni circa la distribuzione mondiale delle ricchezze, ma anche a una grave vulnerabilità dei piccoli paesi, e a un’instabilità della distribuzione mondiale delle posizioni attive nette. In generale, dagli anni settanta e ottanta in poi, abbiamo assistito a un fortissimo processo di finanziarizzazione dell’economia e della struttura dei patrimoni, per cui la massa degli attivi e dei passivi finanziari detenuti dai diversi settori (famiglie, imprese, amministrazioni) è cresciuta ben oltre il valore netto dei patrimoni. Nella maggioranza dei paesi, all’inizio degli anni settanta, il totale degli attivi e dei passivi finanziari non superavano le quattro-cinque annualità di reddito nazionale. Oggi (in particolare negli Stati Uniti, in Giappone, in Germania e in Francia), il totale è perlopiù compreso tra le dieci e le quindici annualità di reddito nazionale, o arriva addirittura a più di venti annualità nel Regno Unito, il che costituisce un record storico assoluto.28 Il fenomeno riflette lo sviluppo senza precedenti delle partecipazioni incrociate tra società finanziarie e non finanziarie di uno stesso paese (in particolare il rigonfiamento notevole dei bilanci bancari, senza alcun rapporto con la crescita effettiva dei propri fondi) e delle partecipazioni incrociate tra paese e paese.
Da questo punto di vista, è bene segnalare che il fenomeno delle partecipazioni incrociate internazionali è di gran lunga più massiccio nei paesi europei – a cominciare da Regno Unito, Germania e Francia (dove gli attivi finanziari detenuti dagli altri paesi equivalgono a un quarto o anche alla metà del totale degli attivi finanziari nazionali, importo di non poco conto) – che nelle economie di maggior dimensione, come quelle degli Stati Uniti o del Giappone (dove queste posizioni attive non superano un decimo).29 Il che accresce, soprattutto in Europa, il senso di espropriazione, a volte in modo esagerato (si dimentica in fretta che, se le aziende nazionali e il debito pubblico sono in gran parte detenuti dal resto del mondo, si detengono all’estero attivi del tutto equivalenti, tramite contratti di assicurazione sulla vita e un’estrema varietà di strumenti finanziari), a volte in parte con ragioni abbastanza fondate. Di fatto, una tale struttura di bilancio comporta una grave vulnerabilità per i piccoli paesi, soprattutto europei, nel senso che anche piccoli “errori” di valutazione degli attivi o dei passivi finanziari detenuti dagli uni e dagli altri possono produrre variazioni enormi nella posizione patrimoniale netta.30 Si rileva peraltro che l’evoluzione della posizione patrimoniale netta dei diversi paesi è determinata non solo dall’accumulazione delle eccedenze (o dei deficit) della bilancia commerciale, ma anche dalle fortissime variazioni del rendimento ottenuto sugli attivi e sui passivi finanziari del paese in questione.31 Precisiamo inoltre che una parte consistente di queste posizioni internazionali riflette più un sistema di flussi finanziari fittizi legati a strategie di ottimizzazione fiscale o di regolamentazione (attraverso società-schermo detenute nei paesi in cui il fisco o la regolamentazione sono più attraenti) che i bisogni effettivi dell’economia reale.32 Torneremo sull’argomento nella Parte terza del volume, quando esamineremo l’importanza assunta dai paradisi fiscali nella dinamica mondiale della distribuzione dei patrimoni.