Un obiettivo di trasparenza democratica e finanziaria

Quale soglia si può fissare per l’imposta ideale sul capitale, e quali entrate si può sperare di ricavarne? Prima di tentare di rispondere alle due domande, precisiamo subito che l’imposta sul capitale di cui stiamo parlando qui non aspira in alcun modo a sostituire le risorse fiscali esistenti. In termini di gettito, si tratterà solo di un provvedimento piuttosto modesto complementare a quanto è già in vigore nello Stato sociale moderno: pochi punti di reddito nazionale (3-4 punti al massimo, fattore comunque non trascurabile).2 Il compito principale dell’imposta sul capitale non è quello di finanziare lo Stato sociale, quanto di regolare il capitalismo. Da un lato si tratta di evitare la spirale infinita della disuguaglianza e il processo illimitato delle divergenze patrimoniali, dall’altro di consentire una regolamentazione efficace delle crisi finanziarie e bancarie. Tuttavia, prima di poter assolvere a questa duplice funzione, l’imposta sul capitale deve consentire di raggiungere un obiettivo di trasparenza democratica e finanziaria sui patrimoni e gli attivi detenuti da tutti su scala internazionale.

Per illustrare l’importanza dell’obiettivo della trasparenza in quanto tale, cominciamo con il pensare a un’imposta mondiale sul capitale prelevata a un tasso molto ridotto, per esempio a un tasso dello 0,1%, su tutti i patrimoni, a prescindere dal loro importo. In teoria, le entrate sarebbero limitate: con uno stock mondiale di capitale privato equivalente a cinque anni di prodotto mondiale, l’imposta frutterebbe circa lo 0,5% del reddito mondiale, con lievi variazioni da paese a paese a seconda del rapporto capitale/reddito in ciascuno di essi (sempre supponendo che le entrate siano incassate nel paese di residenza dei detentori del capitale, e non nelle località in cui il capitale è detenuto: non è affatto la stessa cosa, e torneremo presto sul tema). Quindi un’imposta di questo genere rivestirebbe già di per sé un ruolo molto utile.

In primo luogo, una patrimoniale aiuterebbe a produrre conoscenze e informazioni su patrimoni e ricchezze. Le amministrazioni nazionali e internazionali, gli istituti di statistica europei, americani e mondiali sarebbero finalmente in grado di fornire informazioni affidabili sulla distribuzione dei patrimoni e sul loro andamento. Anziché consultare riviste come Forbes o i rapporti in carta patinata pubblicati dai gestori stessi delle ricchezze – fonti che si nutrono del nulla statistico ufficiale in merito, delle quali abbiamo constatato i limiti nella Parte terza del volume –, i cittadini dei vari paesi potrebbero avere acceso a un’informazione pubblica basata su metodi e obblighi di dichiarazione definiti con precisione. La scommessa democratica non è di poco conto: fino a quando sussisterà una simile opacità sulla distribuzione dei patrimoni e delle ricchezze mondiali, risulterà estremamente difficile avviare un dibattito sereno sulle grandi sfide del mondo attuale, quali il futuro dello Stato sociale, il finanziamento della conversione energetica, la costruzione dello Stato nei paesi del Sud del mondo ecc. Secondo alcuni, i miliardari sono talmente ricchi che basterebbe tassarli a un tasso bassissimo per sistemare tutti i problemi. Secondo altri, i miliardari sono talmente pochi che, procedendo in tal senso, non si otterrebbe alcun risultato sostanziale. Come abbiamo già visto nella Parte terza, la verità sta nel mezzo. Perché la posta sia davvero significativa da un punto di vista macroeconomico, sarà probabilmente necessario scendere a livelli patrimoniali meno estremi (10 o 100 milioni di euro e non 1 miliardo). D’altra parte abbiamo verificato come le tendenze attuali siano obiettivamente inquietanti: se nessuna politica di tale natura viene adottata, il rischio di una crescita illimitata della quota delle maggiori ricchezze in seno al patrimonio mondiale diventa sempre più elevato. È una prospettiva che non può lasciare indifferente nessuno di noi; e, in tutti i casi, la dialettica democratica non può svilupparsi senza una base statistica affidabile.

In secondo luogo, esiste anche una sfida considerevole per la regolamentazione finanziaria. Attualmente le organizzazioni internazionali che hanno il compito di regolare e sorvegliare il sistema finanziario mondiale, a cominciare dal FMI, hanno una conoscenza solo alquanto approssimativa della distribuzione mondiale degli attivi finanziari, in particolare del valore di questi ultimi detenuti attraverso i paradisi fiscali. Come abbiamo visto, la bilancia mondiale degli attivi e dei passivi finanziari è rimasta sempre sistematicamente squilibrata (la Terra sembra, per buona parte, proprietà di Marte). Presumere di guidare con efficacia una crisi finanziaria mondiale nel bel mezzo di una tale nebbia statistica non è una cosa tanto seria. Per esempio, quando si verifica il fallimento di una banca, come quello avvenuto nel 2013 a Cipro, il fatto che le autorità europee, come il FMI, non sappiano in realtà quasi nulla in merito all’identità dei proprietari degli attivi finanziari nell’isola, e soprattutto ignorino l’importo preciso delle ricchezze individuali in questione, le porta a mettere in campo soluzioni grossolane e inefficaci. Vedremo nel prossimo capitolo come la trasparenza sui patrimoni non consenta solo di attivare un’imposta annua e permanente sul capitale: essa permette anche di definire una regolamentazione più corretta e insieme più efficace delle crisi bancarie (come appunto quella cipriota), con il ricorso, se necessario, a prelievi fiscali eccezionali progressivi e ben calibrati. Applicando un tasso dello 0,1%, l’imposta sul capitale assomiglierebbe più a un diritto di registrazione che a una tassa vera e propria: in un certo senso un diritto che consentirebbe a ciascuno di registrare il proprio titolo di proprietà, e più in generale l’insieme degli attivi presso le autorità finanziarie mondiali, in modo da essere identificato come il proprietario ufficiale, con tutti i vantaggi e tutti gli inconvenienti che la cosa comporta. Lo abbiamo già notato: l’imposta sarebbe più o meno assimilabile al diritto di registrazione catastale introdotto dopo la Rivoluzione francese. L’imposta sul capitale sarebbe una sorta di catasto finanziario mondiale, uno strumento che attualmente non esiste.3 È importare capire bene che l’imposta in sé non è mai solo un’imposta: è sempre un modo di irrobustire definizioni e categorie, produrre norme, permettendo di organizzare l’attività economica nel rispetto del diritto e del quadro giuridico vigente. È sempre stato così, in particolare per stabilire, in tempi remoti, il diritto di proprietà terriera.4 In età moderna, all’epoca della prima guerra mondiale, è l’imposta sul flusso dei redditi, dei salari e dei profitti che induce a definire con precisione le nozioni di reddito, salario e profitto: un’innovazione fiscale che ha contribuito in misura notevole allo sviluppo di una contabilità d’impresa, basata su norme omogenee, mai esistita fino ad allora. Uno degli obiettivi principali impliciti nella creazione di un’imposta sullo stock di capitale è appunto quello di perfezionare le definizioni e le regole di valorizzazione degli attivi, dei passivi e del patrimonio netto, oggi fissate in modo approssimativo e spesso impreciso dalle norme di contabilità privata in vigore – una carenza che tra l’altro, a partire dal primo decennio del XXI secolo, ha favorito il moltiplicarsi degli scandali finanziari.5

In terzo luogo, l’imposta sul capitale obbliga a precisare e a estendere il contenuto degli accordi internazionali sulle comunicazioni automatiche delle informazioni bancarie. Il principio è semplicissimo: ogni amministrazione fiscale nazionale deve ricevere tutte le informazioni necessarie per poter calcolare il patrimonio netto di ciascuno dei suoi cittadini. È indispensabile, infatti, che l’imposta sul capitale segua la logica della dichiarazione precompilata dall’amministrazione, sistema che è già in vigore in molti paesi per l’imposta sul reddito (per esempio in Francia, dove ciascun contribuente riceve una dichiarazione che indica i salari dichiarati dal datore di lavoro e i redditi finanziari dichiarati dalle banche). Le cose dovrebbero funzionare allo stesso modo con la dichiarazione precompilata del patrimonio (a partire dal documento medesimo). Ogni contribuente riceve cioè una dichiarazione che indica l’insieme degli attivi e dei passivi da lui detenuti, così come sono noti all’amministrazione. Il sistema è già applicato in numerosi Stati americani nel quadro della property tax. Il contribuente riceve ogni anno una rivalutazione aggiornata al valore di mercato delle sue proprietà immobiliari, calcolata dall’amministrazione sulla base dei prezzi osservati sulle transazioni per beni analoghi. Il contribuente può certo contestarla e proporne un’altra con valori differenti, a condizione però di poterla giustificare. In pratica, le rettifiche non possono che essere molto rare, poiché i dati sulle transazioni e i prezzi di vendita sono facilmente accessibili e difficilmente impugnabili: tutti o quasi tutti conoscono il trend dei prezzi immobiliari nella propria città, e l’amministrazione dispone di banche dati molto complete.6 Si noterà, fra l’altro, il duplice vantaggio della dichiarazione precompilata: da una parte semplifica la vita del contribuente, dall’altra aggira l’inevitabile tentazione di diminuire leggermente il valore dei propri beni.7

È assolutamente essenziale – e perfettamente possibile – estendere un tale sistema di dichiarazione precompilata all’insieme degli attivi finanziari (e dei debiti). Per quanto riguarda attivi e passivi detenuti nel quadro di istituti finanziari siti sul territorio nazionale, la cosa si potrebbe realizzare fin d’ora, dal momento che le banche, le compagnie di assicurazione e gli altri intermediari finanziari hanno già, in quasi tutti i paesi sviluppati, l’obbligo di trasmettere all’amministrazione fiscale l’insieme delle informazioni inerenti i conti bancari e i dossier titoli in loro possesso. Per esempio, l’amministrazione francese sa (o può calcolare) che quella o quell’altra persona è proprietaria di un appartamento del valore di 400.000 euro, che possiede un portafoglio azionario del valore di 200.000 euro e che ha un indebitamento di 100.000 euro, per cui potrebbe spedirle una dichiarazione precompilata che indica queste diverse componenti (per un patrimonio netto di 500.000 euro), chiedendole eventualmente di rettificare e di completare ove necessario. Un sistema del genere, applicato all’insieme della popolazione su base automatica, è ben più adatto, nel XXI secolo, della soluzione arcaica che consiste nel confidare sulla memoria e la buonafede dei contribuenti nel momento in cui si accingono a compilare la propria dichiarazione.8

Il capitale nel XXI secolo
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