Ricardo: il principio di rarità

A posteriori, è molto facile fare dell’ironia su simili profeti di sventure. È tuttavia importante rendersi conto che le trasformazioni economiche e sociali in corso tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX erano obiettivamente impressionanti, per non dire traumatizzanti. Non soltanto Malthus e Young, ma la maggior parte degli osservatori dell’epoca, coltivavano una visione relativamente pessimista, per non dire apocalittica, dell’evoluzione a lungo termine del processo di distribuzione delle ricchezze e della struttura sociale. È il caso, in particolare, di David Ricardo e di Karl Marx, di sicuro i due economisti più influenti del XIX secolo, i quali ritengono entrambi che un piccolo gruppo sociale – i proprietari terrieri per Ricardo, i capitalisti dell’industria per Marx – sia destinato inevitabilmente ad appropriarsi di una quota in continua crescita nella composizione del prodotto e del reddito.2

Per Ricardo, il quale pubblica nel 1817 i suoi Principi dell’economia politica e dell’imposta, la principale preoccupazione riguarda la crescita a lungo termine del prezzo della terra e del livello della rendita fondiaria. Al pari di Malthus, Ricardo non dispone in pratica di alcuna fonte statistica degna di questo nome. Il che non gli impedisce di avere una profonda conoscenza del capitalismo del suo tempo. Nato in una famiglia di finanzieri ebrei di origine portoghese, Ricardo pare anche serbare meno pregiudizi politici di Malthus, Young e Smith. Pur influenzato dal modello di Malthus, spinge più lontano il proprio modo di ragionare. Ricardo è colpito in particolare dal seguente paradosso logico: a partire dal momento in cui la crescita della popolazione e del prodotto tendono stabilmente ad accentuarsi, la terra tende a divenire un bene sempre più raro tra gli altri beni. La legge della domanda e dell’offerta dovrebbe portare a un continuo rialzo del prezzo della terra e degli affitti versati ai proprietari terrieri. Questi ultimi, sia a breve sia a lungo termine, incamereranno una quota più cospicua del reddito nazionale, mentre il resto della popolazione ne riceverà una sempre meno rilevante, con conseguente distruzione dell’equilibrio sociale. Per Ricardo l’unica soluzione logicamente e politicamente soddisfacente è un’imposta progressiva, sempre più onerosa, sulla rendita fondiaria.

Vedremo come una tale cupa profezia non si sia realizzata: la rendita fondiaria è sicuramente rimasta, per lungo tempo, a livelli elevati, ma alla fine, con il calo progressivo del peso dell’agricoltura nel reddito nazionale, il valore dei terreni agricoli è calato inesorabilmente rispetto alle altre forme di ricchezza. Scrivendo nel periodo 1810-20, Ricardo non poteva certo prevedere l’ampiezza con la quale sia il progresso tecnico sia la crescita industriale si sarebbero affermati negli ottant’anni successivi. Così come, al pari di Malthus e di Young, non poteva immaginare un’umanità totalmente affrancata dalla logica della produzione terriera e agricola.

L’intuizione di Ricardo sul prezzo della terra resta nondimeno interessante: il “principio di rarità”, sul quale fa leva l’economista, può potenzialmente spingere determinati prezzi ad acquisire valori sproporzionati nel corso dei decenni. Il che è condizione più che sufficiente a destabilizzare dalle fondamenta intere società. Il sistema del prezzo svolge un ruolo insostituibile nella gestione del comportamento di milioni – o piuttosto di miliardi di individui – nel quadro della nuova economia globale. Il problema è che esso non conosce né limite né morale.

Sarebbe un grave errore trascurare l’importanza di tale principio nell’analisi della distribuzione mondiale della ricchezza nel XXI secolo e per convincersene basta sostituire, nel modello di Ricardo, i prezzi dei terreni agricoli con quello degli immobili urbani nelle grandi capitali, o con il prezzo del petrolio. In entrambi i casi, se si estende al periodo 2010-50 o 2010-2100 la tendenza osservata dal 1970 agli anni dieci del XXI secolo, si arrivano a ipotizzare squilibri economici, sociali e politici di vasta portata, sia tra un paese e l’altro, sia all’interno dello stesso paese, squilibri che potrebbero davvero far pensare all’apocalisse ricardiana.

Esiste certo, in linea di principio, un meccanismo economico molto semplice che consente di equilibrare il processo: il gioco della domanda e dell’offerta. Se l’offerta di un bene è insufficiente, e se il suo prezzo è troppo elevato, la domanda per il bene in questione deve per forza abbassarsi, il che permetterà di calmierare il mercato. In altri termini, se i prezzi immobiliari e petroliferi aumentano, basta andare ad abitare in campagna, oppure usare la bicicletta (o le due cose insieme). Ma, oltre a poter risultare in parte sgradevole e complicato, un tale mutamento può richiedere varie decine d’anni, nel corso dei quali i proprietari di immobili e i petrolieri potranno accumulare crediti talmente rilevanti rispetto al resto della popolazione da trovarsi comunque a possedere, per un tempo non calcolabile, tutto ciò che c’è da possedere, compresi la campagna e la bicicletta.3 Come sempre, il peggio non è mai prevedibile. Da qui al 2050, sarebbe prematuro annunciare al lettore che prezzo dovrà pagare per il suo alloggio all’emiro del Qatar: la questione verrà esaminata a suo tempo, e la risposta che potremo dare sarà evidentemente vaga, anche se tutto sommato rassicurante. L’importante è capire fin d’ora che il gioco della domanda e dell’offerta non impedisce affatto una tale eventualità, vale a dire uno squilibrio sempre più forte e duraturo nella distribuzione delle ricchezze, legato al flusso estremamente mobile di determinati prezzi relativi a determinati beni. È questa la lezione più importante che possiamo ricavare dal principio di rarità di Ricardo. Dopotutto, non siamo obbligati a giocare a dadi.

Il capitale nel XXI secolo
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