L’illusione della produttività marginale

Torniamo ora al problema dell’esplosione delle disuguaglianze salariali negli Stati Uniti (e in minor misura nel Regno Unito e in Canada) negli anni settanta-ottanta. Abbiamo già visto come la teoria della produttività marginale e della gara a inseguimento tra competenza e tecnologia non sia molto convincente: l’escalation degli altissimi compensi si è concentrata all’interno del centile superiore (o del millile superiore) e ha riguardato unicamente determinati paesi e non altri (il Giappone e l’Europa continentale sono stati toccati molto meno degli Stati Uniti), mentre, nel complesso dei paesi con un analogo grado di sviluppo, le trasformazioni tecnologiche avrebbero dovuto interessare in modo molto più equo tutta l’alta classifica delle competenze. Il fatto che la disuguaglianza dei redditi raggiunga negli Stati Uniti dei primi anni del XXI secolo un livello più alto di quello osservato nei paesi poveri ed emergenti nelle diverse epoche – più alto, per dire, di quello dell’India o del Sudafrica degli anni venti-trenta, sessanta-settanta o del primo decennio del XXI secolo – fa pensare che una spiegazione fondata esclusivamente sull’obiettiva disuguaglianza della produttività non sia la più valida. Siamo proprio sicuri che la disuguaglianza di fondo delle competenze e delle produttività individuali sia più forte negli Stati Uniti di oggi che nell’India per metà analfabeta di alcuni decenni fa (o anche di oggi) o nel Sudafrica dell’apartheid (o del post-apartheid)? Se fosse così, sarebbe un dato alquanto allarmante per le istituzioni scolastiche americane, che devono sì essere migliorate e diventare più accessibili, ma non sono certo così degradate.

La spiegazione più convincente per motivare l’escalation degli altissimi compensi americani mi pare la seguente. In primo luogo, trattandosi delle funzioni di quadri dirigenti all’interno delle grandi aziende – abbiamo già visto come i loro compensi costituiscano la maggioranza dei salari più elevati –, è l’idea stessa di una fondatezza oggettiva in termini di “produttività” individuale a sembrarmi un po’ ingenua. Per le funzioni duplicabili, per esempio un operaio o un cameriere in più, è possibile, in base al salario, stimare più o meno la “produttività marginale”, anche se, a volte, con possibilità d’errore non trascurabili – come abbiamo visto in precedenza. Ma quando si tratta di funzioni uniche o quasi uniche, le possibilità d’errore diventano inevitabilmente ancora meno trascurabili. Di più: quando nei modelli economici standard si introduce l’ipotesi d’informazione inesatta – quanto mai giustificata in tale contesto – è la nozione stessa di “produttività marginale individuale” che diventa difficile da definire ed è destinata a trasformarsi in una pura costruzione ideologica fatta apposta per giustificare uno status sociale più elevato.

In concreto, immaginiamo una grande azienda internazionale che impieghi 100.000 persone in tutto il mondo e realizzi un volume d’affari annuo di 10 miliardi di euro, vale a dire 100.000 euro per salariato. Supponiamo che l’acquisto di beni e servizi equivalga alla metà del volume d’affari (è un esempio di proporzione tipico dell’economia nel suo complesso), e che il valore aggiunto dell’azienda – la cifra di cui dispone per pagare il lavoro e il capitale che impiega e utilizza direttamente – sia pertanto di 5 miliardi di euro, vale a dire 50.000 euro per salariato. Per fissare il salario del direttore finanziario della società (o dei suoi collaboratori, o del direttore del marketing e del suo gruppo di lavoro ecc.) andrebbe stimata, in linea di principio, la produttività marginale, vale a dire il suo contributo ai 5 miliardi di euro di valore aggiunto: sarà di 100.000 euro, di 500.000 euro o di 5 milioni di euro annui? È chiaramente impossibile rispondere con esattezza e obiettività a una domanda del genere. Si potrebbe tentare un esperimento mettendo alla prova più direttori finanziari, ciascuno nell’arco di un anno o due, e cercare di determinare, entro il volume d’affari di 10 miliardi di euro, quale sia stato l’impatto di ciascun direttore. Ma la stima ottenuta sarebbe in ogni caso alquanto approssimativa, con un margine d’errore molto più elevato della retribuzione massima prevista per quella funzione, anche in un contesto economico del tutto stabile.35 Senza contare che, in un contesto caratterizzato da una ridefinizione pressoché continua dei contorni dell’impresa e delle funzioni specifiche di ciascuna società, una simile valutazione sperimentale è ovviamente sterile o inefficace.

Di fronte a una tale difficoltà di informazioni e di conoscenze, come si determinano, in pratica, i compensi? Essi, in genere, vengono fissati dai quadri superiori in linea gerarchica, mentre i compensi dei quadri superiori vengono fissati da loro stessi o da comitati di retribuzione formati da persone che godono perlopiù di redditi analoghi (in particolare dai quadri dirigenti di altre società). Le assemblee generali degli azionisti svolgono sì, a volte, un ruolo complementare, ma il tutto riguarda solo un piccolo numero di funzioni direttive e non l’insieme dei quadri superiori e dei dirigenti. In ogni caso, vista l’impossibilità di calcolare con esattezza il contributo di ciascuno al prodotto dell’impresa considerata, è inevitabile che le decisioni conseguenti a tali processi di valutazione siano in gran parte arbitrarie, dipendenti da rapporti di forza e dal potere contrattuale degli uni nei confronti degli altri. Non c’è nulla di offensivo nel supporre che chi gode del privilegio di fissare il proprio salario tenda naturalmente ad avere la mano un po’ pesante, o quantomeno a mostrarsi più ottimista della media in merito alla valutazione della propria produttività marginale. È tutto molto umano, soprattutto in una situazione in cui l’informazione è obiettivamente poco trasparente. Senza arrivare a parlare di “mani in pasta”, è però inevitabile ammettere che si tratta di un’immagine più adatta di quella della “mano invisibile”, la metafora impiegata da Adam Smith per raffigurare l’economia di mercato. Di fatto, la mano invisibile non esiste, come non esiste la concorrenza “pura e perfetta”, e il mercato si incarna sempre in determinate istituzioni specifiche, come appunto le gerarchie superiori e i comitati di retribuzione.

Ciò non vuol dire che i superiori in linea gerarchica e i comitati di retribuzione possano fissare insindacabilmente qualunque tipo di salario, e che optino sempre e comunque per il livello più alto possibile. È vero che gli istituti preposti e le regole che caratterizzano la governance delle imprese in un dato paese sono sempre imperfette e incerte, ma esiste pur sempre un certo numero di contropoteri. Queste istituzioni sono fortemente influenzate sia dalle norme sociali in vigore nella società considerata, in particolare nell’ambito dei quadri dirigenti e degli azionisti (o dei loro rappresentanti che agiscono da azionisti istituzionali: società azionarie o fondi pensione), sia dal grado di accoglimento collettivo di questo o quel livello di compenso da parte dei salariati pagati meno bene dall’azienda, oltre che della società nel suo complesso. Queste norme sociali dipendono in sostanza dai sistemi d’opinione in merito al contributo degli uni e degli altri alla produttività delle imprese e alla crescita del paese considerato. Date le enormi incertezze in proposito, non c’è da stupirsi che tali percezioni varino a seconda delle epoche e dei paesi, e dipendano dalla nozione che ciascun paese ha della propria storia nazionale. Il punto importante da capire, una volta che si è compreso che cosa rappresentano le norme pubbliche in un determinato paese, è che non sarà tanto facile per una data impresa contestarne o contraddirne il significato.

Senza un teoria del genere, diventerebbe quasi impossibile spiegare le notevoli differenze osservate tra paese e paese in tema di altissimi compensi, soprattutto tra Stati Uniti da una parte (e su un gradino più basso gli altri paesi anglosassoni) e l’Europa continentale e il Giappone dall’altra. In altri termini, le disuguaglianze salariali sono cresciute con forza negli Stati Uniti e nel Regno Unito semplicemente perché le società americane e britanniche sono divenute, a partire dagli anni settanta-ottanta, molto più tolleranti in materia di alti compensi. Nei paesi europei e in Giappone si è registrata un’analoga evoluzione delle norme pubbliche, ma va detto che essa ha avuto inizio più tardi (negli anni ottanta-novanta, se non addirittura dopo), per cui, al momento, l’escalation dei compensi è molto meno accentuata. Oggi, a metà degli anni dieci, le retribuzioni da molti milioni di euro continuano a risultare più sconcertanti in Svezia, Germania, Francia, Giappone o Italia, che non negli Stati Uniti o nel Regno Unito. Non è stato sempre così, anzi: ricordiamo che gli Stati Uniti, negli anni cinquanta-sessanta, erano molto più ugualitari della Francia, specie per quanto riguarda le alte gerarchie salariali. Ma è stato così a partire dagli anni settanta-ottanta, e tutto fa pensare che il fenomeno abbia avuto un ruolo centrale nella crescita delle disuguaglianze salariali nei diversi paesi.

Il capitale nel XXI secolo
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