Il rendimento dei fondi sovrani: capitale e politica

Esaminiamo ora il caso dei fondi sovrani, i quali hanno fatto registrare un grosso sviluppo negli ultimi decenni, soprattutto tra i paesi produttori di petrolio. I dati resi disponibili sulle strategie di collocamento e i rendimenti effettivamente ottenuti sono purtroppo molto meno dettagliati e sistematici di quelli relativi alle dotazioni universitarie – fatto particolarmente deprecabile, in quanto, qui, gli obiettivi finanziari sono ben più marcati. Il fondo norvegese, che vale da solo più di 700 miliardi di euro nel 2013 (due volte di più di tutte le università americane messe insieme), è quello che pubblica i rapporti finanziari più dettagliati. La sua strategia d’investimento, almeno all’inizio, sembra più tradizionale di quella delle dotazioni universitarie, in parte perché avviene sotto il controllo della popolazione (una popolazione che accetterebbe con più riluttanza del board di Harvard investimenti massicci in hedge funds e in azioni non quotate), e i rendimenti ottenuti sembrano molto meno buoni.38 Negli ultimi anni i responsabili del fondo hanno ottenuto l’autorizzazione a lanciarsi con maggior decisione negli investimenti alternativi (in particolare nell’immobiliare internazionale), ed è possibile che, in futuro, i rendimenti aumentino. Si nota inoltre che le spese di gestione del fondo ammontano a meno dello 0,1% della dotazione, contro lo 0,3% di Harvard; tuttavia, se si considera il fatto che il fondo è venti volte superiore, il dato costituisce in ogni caso un buon motivo di riflessione sulla strategia d’investimento. Si apprende altresì che, sull’insieme del periodo 1970-2010, circa il 60% del denaro ricavato dalla vendita del petrolio è stato collocato nel fondo, e che il 40% è stato speso anno dopo anno per i servizi pubblici. Le autorità norvegesi non arrivano però a dirci qual è l’obiettivo a lungo termine della crescita potenziale del fondo, e a partire da quale data il paese potrà cominciare a consumare i rendimenti ottenuti, o almeno una parte di essi: tutto dipende dallo sviluppo delle riserve petrolifere, dal prezzo del barile e dal rendimento ottenuto nei decenni a venire.

Se passiamo a esaminare altri fondi sovrani, in particolare quelli del Medio Oriente, constatiamo purtroppo un’opacità ben maggiore. I rapporti finanziari sono perlopiù sommari e, in genere, non è possibile conoscere con precisione la strategia d’investimento: ai rendimenti ottenuti si fa cenno in modo allusivo e a tratti poco coerente, nel passaggio da un anno all’altro. Gli ultimi rapporti pubblicati dall’Abu Dhabi Investment Authority, che gestisce il più importante fondo sovrano mondiale (più o meno pari a quello della Norvegia), annunciano, per il periodo 1990-2010, un rendimento reale medio superiore al 7% annuo e, per il periodo 1980-2010, un rendimento superiore all’8% annuo. Se si considerano i rendimenti osservati per le dotazioni universitarie, il dato suona del tutto plausibile – anche se, in assenza di informazioni annue dettagliate, è difficile pronunciarsi con maggiore sicurezza.

È interessante notare che esistono evidentemente strategie di collocamento molto diverse da fondo a fondo, le quali si accompagnano a strategie di comunicazione molto diverse nei confronti della popolazione, così come esistono strategie politiche diverse sulla scena internazionale. Se da un lato Abu Dhabi annuncia alto e forte un rendimento elevato, dall’altro l’Arabia Saudita, che segue immediatamente Abu Dhabi e la Norvegia nella gerarchia dei fondi petroliferi, e precede il Kuwait, il Qatar e la Russia, sceglie invece di mantenere un basso profilo. È chiaro che i piccoli paesi petroliferi del Golfo Persico, che hanno una popolazione locale limitata, si rivolgono innanzitutto alla comunità finanziaria internazionale. I rapporti sauditi sono più sobri e affidano le notizie sulle proprie riserve a documenti di carattere più generale, con l’indicazione della crescita del bilancio nazionale e i dati della spesa pubblica. Si rivolgono in primo luogo alla popolazione del regno, oggi vicina ai 20 milioni di abitanti, molto inferiore a quella dei grandi paesi della regione (80 milioni in Iran, 85 milioni in Egitto, 35 milioni in Iraq), ma molto superiore a quella dei micro-Stati del Golfo39. A prescindere dal volume differente, sembra comunque che anche l’investimento delle riserve saudite sia meno aggressivo. Secondo i documenti ufficiali, il rendimento medio da esse ottenuto non supererebbe il 2-3% annuo, e la cosa si spiegherebbe in particolare con il fatto che una grandissima parte sarebbe collocata in titoli del debito pubblico americano. I rapporti finanziari sauditi sono ben lontani dal dare tutte le informazioni necessarie per conoscere la composizione dettagliata del loro portafogli, ma gli elementi a nostra disposizione sono complessivamente più abbondanti di quelli forniti dai micro-Stati, e in questo senso l’informazione sembra esatta.

Perché, allora, l’Arabia Saudita sceglierebbe di piazzare le sue riserve in buoni del tesoro americani, mentre le sarebbe possibile ottenere rendimenti ben superiori altrove? La domanda merita di essere posta anche in relazione al fatto che da decenni le dotazioni delle università americane non investono più in titoli pubblici del loro paese, e cercano nell’intero e vasto mondo rendimenti più proficui: in fondi speculativi, azioni non quotate o prodotti derivati da materie prime. Certo i titoli di Stato americani offrono una garanzia di stabilità invidiabile in un mondo instabile come il nostro, ed è possibile che l’opinione pubblica saudita non gradisca troppo gli investimenti alternativi, ma conta più di tutto il significato che la scelta di investire in titoli pubblici americani comporta dal punto di vista politico e militare: anche se non viene detto esplicitamente, non è illogico per l’Arabia Saudita prestare soldi a buon mercato al paese che la protegge militarmente. Che io sappia, nessuno ha mai tentato di calcolare con precisione le redditività di un simile investimento, ma mi sembra evidente che il tasso di rendimento debba essere per forza abbastanza alto. Se nel 1991 gli Stati Uniti, sostenuti dagli altri paesi occidentali, non fossero andati a scacciare l’esercito iracheno dal Kuwait, è probabile che l’Iraq non avrebbe esitato a minacciare anche i giacimenti sauditi, e non si può escludere che altri paesi della regione, come l’Iran, si sarebbero inseriti nella strategia militare di redistribuzione della rendita petrolifera. La dinamica della distribuzione mondiale del capitale è un processo insieme economico, politico e militare. Era già così in età coloniale, quando le potenze dell’epoca – Regno Unito e Francia in testa – erano pronte a ricorrere ai cannoni per proteggere i loro investimenti. E così sarà, con tutta evidenza, nel XXI secolo, pur nell’ambito di configurazioni geopolitiche differenti, ancora difficili da prevedere.

Il capitale nel XXI secolo
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