Grandezza e caduta dei capitali esteri
Quanto ai capitali esteri, rileviamo che nel Regno Unito e in Francia hanno seguito un’evoluzione molto singolare, se consideriamo la storia movimentata del colonialismo e delle due massime potenze coloniali del pianeta nel corso degli ultimi tre secoli. Gli attivi netti in loro possesso nel resto del mondo non hanno cessato di crescere nei secoli XVIII e XIX, raggiungendo livelli estremamente elevati alla vigilia della prima guerra mondiale, per poi crollare letteralmente tra il 1914 e il 1945 e stabilizzarsi da allora su livelli piuttosto bassi, come si può vedere dai grafici 3.1 e 3.2.
Le proprietà estere iniziano ad acquistare importanza tra il 1750 e il 1800, come dimostrano gli investimenti nelle Antille del Sir Thomas di cui ci parla Jane Austen in Mansfield Park. Anche se il fenomeno ha proporzioni ancora molto modeste: nel momento in cui la scrittrice scrive il romanzo, nel 1812, lo stock degli attivi esteri equivale, secondo le fonti a nostra disposizione, ad appena il 10% del reddito nazionale del Regno Unito, ossia è trenta volte inferiore al valore dei terreni agricoli (più di tre annualità di reddito nazionale). Non dobbiamo quindi meravigliarci del fatto che i personaggi di Jane Austen vivano soprattutto delle loro proprietà rurali.
Solo in pieno XIX secolo l’accumulazione di attivi britannici nel resto del mondo assumono proporzioni considerevoli, fino allora sconosciute nella storia, e mai più superate fino a oggi. Alla vigilia della prima guerra mondiale, il Regno Unito è alla testa del primo impero coloniale nel mondo e possiede attivi esteri equivalenti a circa due annualità di reddito nazionale, vale a dire sei volte più del valore totale dei terreni agricoli del regno (valore che, al momento, si aggira attorno al 30% del reddito nazionale e non di più).4 Ecco fino a che punto la struttura della ricchezza si è trasformata dai tempi di Mansfield Park – e speriamo che gli eroici personaggi di Jane Austen e soprattutto i loro discendenti abbiano saputo riconvertirsi in tempo e seguire le orme di Sir Thomas, reinvestendo una parte della loro rendita fondiaria in investimenti internazionali. Durante la belle époque, il capitale investito all’estero produce profitti, dividendi, interessi, affitti, con un rendimento medio di circa il 5% annuo, per cui il reddito nazionale di cui dispongono gli inglesi è annualmente dell’ordine del 10% più alto del prodotto interno, il tutto a beneficio di un gruppo sociale alquanto consistente.
La Francia, alla testa del secondo impero coloniale nel mondo, beneficia di una situazione quasi altrettanto favorevole: nel primo decennio del Novecento ha accumulato nel resto del mondo attivi esteri equivalenti a più di un’annualità di reddito nazionale, per cui il reddito annuo supera del 5% il prodotto interno. La Francia, di fatto, riceve dal resto del mondo, sotto forma di dividendi, interessi, royalty, affitti e altri redditi da capitale, versati come contropartita dei suoi possedimenti esteri, l’equivalente dell’intera produzione industriale dei dipartimenti del Nord e dell’Est del paese.5
È importante capire che questi determinanti attivi esteri netti permettono, al Regno Unito e alla Francia, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, di essere in una situazione di deficit commerciale strutturale. Tra il 1880 e il 1914, il Regno Unito e la Francia ricevono dal resto del mondo beni e servizi di un valore nettamente superiore a quello delle esportazioni (il loro deficit commerciale medio, nel corso del periodo, pari a uno-due punti di reddito nazionale). Il deficit, non costituisce un problema, poiché i redditi da capitale estero che i due paesi ricevono dal resto del mondo superano di cinque punti il reddito nazionale. La loro bilancia dei pagamenti è in fortissimo attivo, tale da consentire loro di accrescere la posizione patrimoniale estera anno dopo anno.6 In altri termini, il resto del mondo lavora per aumentare i consumi delle potenze coloniali, e in questo modo s’indebita in misura crescente nei confronti delle potenze medesime. Può sembrare un fatto scioccante. Ma è indispensabile comprendere che l’obiettivo dell’accumulo degli attivi esteri, tramite eccedenze commerciali o appropriazioni coloniali, è proprio quello di accumulare, specularmente e conseguentemente, i deficit commerciali. Che interesse ci sarebbe ad avere in eterno delle eccedenze commerciali? L’interesse dell’essere proprietari consiste appunto nella possibilità di continuare a consumare e accumulare senza dover lavorare, o quantomeno di consumare e accumulare in quantità superiore alla quantità derivante dal proprio lavoro. Accadeva lo stesso al tempo del colonialismo, e su scala internazionale.
In seguito alla triplice crisi del XX secolo – quella bellica provocata dalle due guerre mondiali, quella economica del 1929 con effetti durevoli per tutti gli anni trenta, quella politica suscitata dai successivi processi di decolonizzazione –, gli enormi stock di investimenti esteri sono destinati a sparire completamente. Negli anni cinquanta, sia la Francia sia il Regno Unito finiscono per ritrovarsi con posizioni patrimoniali nette vicine allo zero rispetto al resto del mondo, il che significa che gli attivi posseduti all’estero sono appena sufficienti a compensare gli investimenti detenuti dagli altri paesi nelle due ex potenze coloniali. E, in linea di massima, la situazione non ha subito modifiche nel corso della seconda metà del XX secolo. Dagli anni cinquanta al 2010, gli attivi esteri netti detenuti dalla Francia e dal Regno Unito sono stati a volte leggermente positivi a volte leggermente negativi, comunque vicinissimi allo zero, almeno in rapporto ai livelli osservati in precedenza.7
Per finire, se si paragona la struttura del capitale nazionale del XVIII secolo con quella dell’inizio del XXI, si osserva che gli attivi esteri netti svolgono un ruolo trascurabile in entrambi i casi, e che la vera trasformazione strutturale sul lungo periodo riguarda la progressiva sostituzione dei terreni agricoli con gli investimenti immobiliari e di capitale, per un valore totale dello stock di capitale più o meno immutato rispetto al reddito nazionale.