I principali risultati ottenuti in questo libro

Quali sono le nostre principali conclusioni, raggiunte grazie alla possibilità di attingere a fonti storiche finora inesplorate? La prima lezione è che occorre diffidare, in una materia del genere, di ogni determinismo economico: la storia della distribuzione delle ricchezze è sempre una storia profondamente politica, che non si esaurisce nell’individuazione dei meccanismi puramente economici. In particolare, la riduzione delle disuguaglianze osservata nei paesi sviluppati tra il 1900 e il 1910 e tra il 1950 e il 1960 è innanzitutto dovuta all’incidenza delle due guerre e delle politiche pubbliche messe in campo per superare le gravi crisi in atto. Così come la crescita delle disuguaglianze dal 1970 al 1980 e successivamente è soprattutto dovuta ai cambiamenti politici degli ultimi decenni, specie in materia fiscale e finanziaria. La storia delle disuguaglianze dipende dalla rappresentazione di ciò che è giusto e di ciò che non lo è che si fanno gli attori economici, politici, sociali, dai rapporti di forza tra questi attori, e dalle scelte collettive che ne derivano; è ciò che viene determinato da tutti gli attori coinvolti.

La seconda lezione, nodo centrale del libro, è che la dinamica della distribuzione delle ricchezze si muove su fenomeni di grande portata, motori sia di convergenza che di divergenza in assenza di qualunque strumento naturale o spontaneo che controlli il prevalere di tendenze destabilizzanti che innescano la disuguaglianza.

Cominciamo con i meccanismi a favore della convergenza, vale a dire a favore della riduzione e della compressione delle disuguaglianze. Il principale fattore di convergenza sono i processi di diffusione delle conoscenze e di investimento sulle competenze e nella formazione. Il gioco della domanda e dell’offerta, così come la mobilità del capitale e del lavoro, che ne costituisce una variante, possono intervenire ugualmente in questa direzione, ma in misura meno intensa, e spesso in forma ambigua e contraddittoria. Il processo di diffusione delle conoscenze e delle competenze è l’elemento cruciale, il meccanismo che consente al tempo stesso la crescita generale della produttività e la riduzione delle disuguaglianze sia all’interno di ciascun paese sia a livello mondiale, come dimostra il riequilibrio economico attualmente raggiunto da molti paesi poveri ed emergenti, a cominciare dalla Cina, rispetto ai paesi ricchi. Adottando i modelli di produzione e raggiungendo i livelli di qualificazione dei paesi ricchi, i paesi meno sviluppati colmano i ritardi di produttività e accrescono il reddito nazionale. Tale processo di convergenza tecnologica può essere favorito dalle aperture commerciali, ma si tratta fondamentalmente di un processo di diffusione delle conoscenze e di condivisione del sapere – bene pubblico per eccellenza – più che di un meccanismo di mercato.

Da un punto di vista strettamente teorico, esistono potenzialmente altri elementi di forza finalizzati al raggiungimento di una maggiore uguaglianza. Per esempio si potrebbe pensare che nel corso della storia le tecniche di produzione assegnino un’importanza sempre maggiore al lavoro dell’uomo e alle sue competenze, di modo che la quota dei redditi da lavoro faccia registrare una crescita tendenziale (parallela a una decrescita dei redditi da capitale): ipotesi che potremmo chiamare “crescita o riscatto del capitale umano”. In altri termini, se così fosse, il progressivo adeguamento alla razionalità tecnica comporterebbe automaticamente la vittoria del capitale umano sul capitale finanziario e immobiliare, del personale dirigente meritevole sugli azionisti oziosi, della competenza sul nepotismo. In tal senso, le disuguaglianze diventerebbero di per sé più meritocratiche e meno immutabili (se non meno evidenti) nel corso della storia: in qualche modo, la razionalità economica si tradurrebbe meccanicamente, se così fosse, in razionalità democratica.

Un altro pensiero ottimistico, assai diffuso nelle società moderne, è quello secondo cui l’allungamento della durata della vita porterebbe automaticamente a sostituire la “lotta di classe” con il “conflitto generazionale” (forma di conflitto tutto sommato meno lacerante per una società, poiché ciascuno è prima giovane e poi vecchio). In altri termini, l’accumulazione e la distribuzione dei patrimoni sarebbero oggi dominate non più da uno scontro implacabile tra le dinastie di eredi e le dinastie che non possiedono altro che il proprio lavoro, ma da una logica del risparmio nel corso del ciclo della vita: nel senso che ciascuno accumula patrimonio per la propria vecchiaia. Il progresso della medicina e il miglioramento delle condizioni di vita avrebbero quindi trasformato totalmente la natura stessa del capitale.

Purtroppo vedremo che entrambe le idee, alquanto ottimistiche (la “crescita del capitale umano” e l’affermazione del “conflitto generazionale” sulla “lotta di classe”), sono in gran parte illusorie. Più esattamente tali trasformazioni, del tutto plausibili da un punto di vista strettamente logico, hanno certo avuto luogo, ma in proporzioni molto meno massicce di quanto a volte si pensi. Non è affatto sicuro che la quota lavoro nella composizione del reddito nazionale sia incrementata in modo significativo sul lungo periodo: il capitale (non umano) appare tuttora nel XXI secolo indispensabile pressoché nella stessa misura in cui lo era nel XVIII o nel XIX secolo, e non è da escludere che lo diventi ancora di più. Per cui, oggi come ieri, le disuguaglianze patrimoniali restano al primo posto nella scala delle disuguaglianze all’interno di ciascuna classe d’età. E vedremo come l’eredità oggi, all’inizio del XXI secolo, stia riacquistando la stessa importanza che aveva all’epoca di Papà Goriot. Sul lungo periodo, il fattore veramente propulsivo e in grado di determinare processi di eguaglianza delle condizioni, è la diffusione delle conoscenze e delle competenze.

Il capitale nel XXI secolo
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