Il problema dell’unificazione europea
Solo una messa in comune, o condivisione, dei debiti pubblici dell’eurozona, o quantomeno dei paesi che al suo interno lo desiderino, aiuterebbe a uscire dalle contraddizioni sopra accennate. La proposta tedesca dei “fondi di redenzione” prima ricordata è un buon punto di partenza, ma le manca un aspetto politico.27 In concreto, è impossibile decidere con vent’anni di anticipo quale sarà la cadenza esatta della “redenzione”, vale a dire a quale ritmo annuale lo stock del debito comune sarà ricondotto all’obiettivo prefissato. Tutto dipenderà da una serie di parametri, a cominciare dalla congiuntura economica. Per stabilire il ritmo di alleggerimento del debito comune, in sostanza per colmare il deficit pubblico dell’eurozona, occorre creare un vero parlamento di bilancio dell’eurozona stessa. La soluzione migliore sarebbe quella di comporlo a partire dai deputati dei parlamenti nazionali, in modo da costruire una sovranità parlamentare europea fondata sulle legittimità democratiche nazionali.28 Come tutti i parlamenti, questa camera prenderebbe le proprie decisioni a maggioranza, dopo i dovuti dibattiti e confronti. Vi si formerebbero coalizioni su una base in parte politica e in parte nazionale; le decisioni che ne conseguirebbero non sarebbero perfette, ma almeno si saprebbe quanto è stato deciso e perché. Sarebbe già qualcosa. Questa soluzione risulterebbe più promettente rispetto al semplice affidarsi all’europarlamento, il quale ha l’inconveniente di comporsi di ventisette paesi (molti dei quali non sono membri dell’eurozona e per il momento non aspirano a una piena integrazione europea), e di eludere un po’ troppo apertamente le sovranità parlamentari nazionali, il che, quando sono in ballo decisioni sui deficit di bilancio nazionali, suscita qualche problematica. Il tutto spiega perché i trasferimenti di competenze al Parlamento europeo siano sempre stati molto limitati – e fa pensare che resteranno limitati ancora a lungo. È venuto il momento di prenderne atto e di dotarsi finalmente di una camera parlamentare adeguata alla volontà di unificazione espressa dai paesi dell’eurozona (il cui abbandono della sovranità monetaria è la prova più chiara, a giudicare da come ne sopportano le conseguenze).
Sono possibili non poche correzioni complementari istituzionali. Nella primavera del 2013 le autorità italiane hanno fatto propria la proposta, avanzata parecchi anni prima dai responsabili politici tedeschi, di un’elezione a suffragio universale del presidente dell’Unione Europea, proposta che, secondo logica, dovrebbe accompagnarsi a quella di un ampliamento dei suoi poteri. Nel momento in cui un parlamento di bilancio decide quale sia il deficit dell’eurozona, appare evidente che un ministro europeo delle finanze debba esserne il responsabile davanti alla camera e sottoporle a sua volta il proprio progetto di bilancio e di deficit. Quel che è certo è che l’eurozona non può fare a meno, per decidere pubblicamente, democraticamente e sovranamente la propria strategia di bilancio, e più in generale il modo in cui intende uscire dalla crisi bancaria e finanziaria nella quale si sta dibattendo, di una vera rappresentanza parlamentare. I consigli dei capi di Stato o i consigli dei ministri delle finanze non possono in alcun modo prenderne il posto. Si tratta di riunioni segrete, non supportate da alcun confronto pubblico, e, di regola, si traducono in comunicati di vittoria, perlopiù notturni, circa il salvataggio dell’Europa, quando invece neppure chi vi ha partecipato sembra sempre essere sufficientemente a conoscenza di quanto è stato deciso. È emblematico il caso della decisione sulla tassa cipriota: ufficialmente essa è stata presa all’unanimità, ma nessuno ha voluto assumersene pubblicamente la responsabilità.29 Una situazione simile è degna dell’Europa del Congresso di Vienna (1815), ma del tutto inadeguata al XXI secolo. Le proposte tedesca e italiana sopra ricordate dimostrano che sono possibili dei progressi. E sorprende constatare come la Francia, sempre pronta a dare lezioni in materia di solidarietà europea, in particolare sulla condivisione del debito (almeno a parole),30 sia attualmente assente dal dibattito, a prescindere dalle alternanze politiche.31
In assenza di un progresso di tale natura, è arduo pensare a una soluzione duratura della crisi dell’eurozona. Oltre alla condivisione del debito e del deficit, esistono naturalmente altre soluzioni di bilancio e altri strumenti fiscali che ciascun paese non sarebbe in grado di elaborare singolarmente e che sarebbe non meno logico mettere in comune. Il primo esempio che viene in mente è, com’è ovvio, l’imposta progressiva sul capitale, di cui abbiamo a lungo parlato nel capitolo precedente.
Un altro esempio, ancora più evidente, è l’imposta sul reddito d’impresa. Questa imposta è senza dubbio ciò per cui la concorrenza fiscale tra Stati europei è stata, a partire dai primi anni novanta, ferocissima. Numerosi piccoli paesi, innanzitutto l’Irlanda, seguita dai paesi dell’ ex Europa dell’Est, hanno fatto dell’idea di un’imposta relativamente bassa sui redditi d’impresa, uno degli assi portanti della loro strategia di sviluppo e di attrattività internazionale. Teoricamente, in un sistema fiscale ideale fondato su scambi automatici di informazioni bancarie del tutto affidabili, l’imposta sulle società svolgerebbe un ruolo limitato: non sarebbe niente di più che un preconteggio pagato in anticipo dell’imposta sul reddito (o dell’imposta sul capitale) pagata dall’azionista o dal singolo investitore32 In pratica, il problema è che l’anticipo si trasforma spesso in un saldo dell’intero conto, nel senso che buona parte della base fiscale dichiarata a livello di profitti imponibili delle società non si ritrova mai al livello del reddito imponibile individuale – da qui l’importanza del prelievo di un tasso significativo alla fonte, a livello d’imposta sul reddito d’impresa.
La soluzione giusta sarebbe disporre di una dichiarazione unica dei redditi a livello europeo, e suddividere poi le entrate con un criterio meno manipolabile di quello attuale dei redditi suddivisi per singola sede. Infatti il problema dell’attuale sistema è che le multinazionali finiscono talvolta per pagare sulle società importi fiscali quasi irrisori, per esempio collocando in modo puramente fittizio i propri profitti in una microfiliale con sede in una zona o in un paese poco tassati, nella più totale impunità, e sovente in buona fede.33 Per cui è più ragionevole abbandonare l’idea di localizzare i profitti su questo o quel territorio e ripartire le entrate sulla base delle vendite o dei salari.
Un problema analogo si pone per l’imposta sul capitale individuale. Il principio generale sul quale perlopiù si fondano la maggior parte delle convenzioni fiscali è il principio di residenza: ogni paese tassa redditi e patrimoni delle persone che risiedono sul suo territorio per più di sei mesi l’anno. Un principio pratico che è sempre più difficile applicare in Europa, soprattutto nelle zone di frontiera (come per esempio tra la Francia e il Belgio). Del resto, il patrimonio è sempre stato tassato a seconda della localizzazione degli attivi finanziari e non di chi lo detiene. Per esempio, la tassa fondiaria viene pagata su un immobile parigino, anche se il suo proprietario risiede all’altro capo del mondo, e viene pagata a Parigi quale che sia la sua nazionalità. Il medesimo principio si applica alla tassa sulla ricchezza, anche se solamente per i beni immobiliari. Nulla, quindi, vieterebbe di applicarlo anche agli attivi finanziari, a seconda della sede dell’attività economica della società corrispondente. Lo stesso discorso vale per i titoli del debito pubblico. Tuttavia l’estensione agli attivi finanziari del principio di “residenza del capitale” (e non della residenza di chi lo detiene) esige evidentemente quella trasmissione automatica delle informazioni bancarie che, come s’è detto, consentirebbe di seguire le complicate strutture del mercato azionario. E sono tutte imposte che pongono il problema delle multinazionali.34 È perciò evidente che le risposte a queste domande possono essere date solo a livello europeo (o mondiale). La soluzione più giusta? Lo abbiamo detto: affidare al parlamento di bilancio dell’eurozona l’adozione di questi strumenti.
Tutto ciò è utopico? Non più della pretesa di creare una moneta senza Stato. Dal momento in cui i paesi hanno rinunciato alla loro sovranità monetaria, ci sembra sia indispensabile restituire loro una sovranità fiscale su materie che sfuggono ormai agli Stati-nazione: materie quali il tasso d’interesse sul debito pubblico, l’imposta progressiva sul capitale o la tassa sugli utili delle multinazionali. Oggi, per i paesi europei, la priorità dovrebbe essere quella di istituire un potere pubblico continentale in grado di riprendere il controllo del capitalismo patrimoniale e degli interessi privati, e di promuovere il modello sociale europeo per il XXI secolo; i piccoli contrasti tra modelli nazionali sono relativamente secondari, tanto più che è in gioco la sopravvivenza di un modello comune.35
Va anche sottolineato che, in mancanza di un’unione politica europea, è molto probabile che le forze della concorrenza fiscale continueranno a far sentire i loro effetti. E sarebbe sbagliato pensare di aver già visto la fine della concorrenza fiscale. Si possono già intravedere le prossime tappe della gara a inseguimento al ribasso dell’imposta sulle società, con progetti tipo Allowance for Corporate Equity (ACE), il quale potrebbe risolversi in una soppressione pura e semplice, a breve scadenza, dell’imposta sulle società stesse.36 Non è che voglia drammatizzare a tutti i costi, ma mi pare importante far capire che il normale procedere della concorrenza fiscale non possa non portare a una prevalenza delle imposte sui consumi, ossia a un sistema fiscale del XIX secolo che non consentirà alcuna progressività e in pratica favorirà le persone che hanno i mezzi per risparmiare oppure per trasferirsi, o meglio ancora, per entrambe le soluzioni.37 È però giusto notare che, a volte, alcune cooperazioni fiscali si affermano più in fretta di quanto si sia indotti a pensare a priori, come dimostra il programma di tassazione delle transazioni finanziarie, un’imposta che potrebbe diventare una delle prime tasse davvero europee. Anche se il suo impatto appare, a prima vista, ben inferiore a quello dell’imposta sul capitale o dell’imposta sugli utili d’impresa (in termini sia di entrate sia di peso distributivo), i recenti progressi in materia dimostrano che niente può essere preordinato.38 La storia politica e fiscale s’inventa ogni giorno le proprie strade da percorrere.