Al di là di Cobb-Douglas: il problema della stabilità della divisione capitale-lavoro

Il caso intermedio di un’elasticità di sostituzione esattamente pari a uno corrisponde alla cosiddetta “funzione di produzione Cobb-Douglas”, dal nome dei due economisti, Cobb e Douglas, che l’hanno proposta per la prima volta nel 1928. La funzione di produzione Cobb-Douglas si distingue per il fatto che, qualunque cosa succeda, quali che siano – insomma – le quantità di capitale e di lavoro disponibili, la quota di capitale resta sempre pari a un coefficiente fisso α, il quale può essere perciò considerato un parametro puramente tecnologico.17

Per esempio, se α = 30%, quale che sia il rapporto capitale/reddito, i redditi da capitale equivarranno al 30% del reddito nazionale (e i redditi da lavoro equivarranno al 70%). Se i tassi di risparmio e di crescita del paese considerato sono tali da far sì che il rapporto capitale/reddito di lungo termine β = s/g corrisponda a sei annualità di reddito nazionale, il tasso di rendimento del capitale sarà del 5%, per una quota di capitale del 30%. Se lo stock di capitale di lungo termine corrisponde solo a tre annualità di reddito nazionale, il rendimento del capitale salirà al 10%. E se i tassi di risparmio e di crescita sono tali da far sì che lo stock di capitale equivalga a dieci annualità di reddito nazionale, il rendimento scenderà al 3%. In tutti i casi, la quota di capitale sarà sempre del 30%.

La funzione Cobb-Douglas è divenuta molto popolare nei manuali di economia del secondo dopoguerra (specie in quello di Samuelson). Un po’ per validi motivi, un po’ per pessimi motivi: per la sua notevole semplicità (gli economisti amano le storie semplici, anche quando esse sono alquanto approssimative), ma soprattutto perché la stabilità della divisione capitale-lavoro dà una visione relativamente tranquilla e armonica dell’ordine sociale. In realtà, la stabilità della quota di capitale – supponendo che si verifichi – non garantisce per nulla l’armonia: anzi, può benissimo coniugarsi con una disuguaglianza estrema e insostenibile in merito alla proprietà da capitale e alla distribuzione dei redditi. E, a dispetto di un’idea assai diffusa, la stabilità della quota di capitale nella composizione del reddito nazionale non implica in alcun modo una pari stabilità del rapporto capitale/reddito, che può assumere valori diversissimi nel tempo e a seconda dei paesi, comportando anche forti squilibri internazionali nella proprietà da capitale.

Ma il punto sul quale dobbiamo insistere qui è che la realtà storica è più complessa di quanto lasci intendere l’idea della completa stabilità della divisione capitale-lavoro. L’ipotesi Cobb-Douglas può rappresentare, a volte, una valida approssimazione, per determinati sottoperiodi o determinati settori, e costituisce in ogni caso un punto di partenza utile alla riflessione. Ma non dà conto in modo soddisfacente della varietà dei processi storici osservati, sul lungo come sul breve o medio periodo, come dimostrano i dati che abbiamo raccolto.

La nostra conclusione non deve peraltro stupire: quando l’ipotesi venne avanzata, non si disponeva di dati consistenti né di una distanza storica adeguata. Nel loro articolo originale, pubblicato nel 1928, gli economisti americani Cobb e Douglas utilizzavano dati riguardanti l’industria manifatturiera americana dal 1899 al 1922, dati che in effetti dimostravano una certa stabilità dei profitti.18 La tesi, a quanto sembra, era stata introdotta per la prima volta dall’economista britannico Arthur Bowley, il quale, nel 1920, aveva pubblicato un importante lavoro dedicato alla distribuzione del reddito nazionale nel Regno Unito dal 1880 al 1913, arrivando a concludere che nel corso del periodo preso in esame si era affermata una relativa stabilità della divisione capitale-lavoro.19 È però evidente che i periodi analizzati da questi autori sono piuttosto brevi, e che, soprattutto, i loro studi non provano a confrontare i risultati ottenuti con eventuali stime relative all’inizio del XIX secolo (per non parlare del XVIII).

Occorre inoltre ricordare, come abbiamo già fatto nell’Introduzione, che i problemi affrontati, tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX, così come successivamente, nel periodo della guerra fredda, sollevavano non poche tensioni politiche – fenomeno che non agevola certo un sereno esame dei fatti. Gli economisti conservatori o liberali vogliono dimostrare che la crescita avvantaggia tutti: sono cioè molto affezionati alla tesi di una completa stabilità della divisione capitale-lavoro, salvo poi trascurare volutamente i dati o i periodi che registrano una forte crescita della quota di capitale. Viceversa, gli economisti marxisti vogliono dimostrare in tutti i modi che la quota di capitale tende a crescere progressivamente e sempre, mentre i salari restano fermi, anche a costo talvolta di distorcere i dati disponibili. Nel 1899, Eduard Bernstein, il quale, sciaguratamente, presume che con la crescita dei salari la classe operaia abbia tutto da guadagnare a collaborare con il regime in Germania (Bernstein si dice pronto a diventare vicepresidente del Reichstag), viene messo nettamente in minoranza al congresso della SPD riunito a Hannover. Nel 1937, il giovane storico ed economista tedesco Jürgen Kuczynski, destinato a diventare, negli anni cinquanta e sessanta, un prestigioso professore di storia economica all’Università Humboldt di Berlino Est, e a pubblicare tra il 1960 e il 1972 una monumentale storia universale dei salari in trentotto volumi, se la prende invece con Bowley e con gli economisti borghesi. Kuczynski difende la tesi del continuo deterioramento, dai tempi del primo capitalismo industriale fino agli anni trenta, della parte del lavoro, il che è vero per la prima metà del XIX secolo – o per i primi due terzi – ma è eccessivo se si considera l’insieme del periodo.20 Negli anni successivi, sulle riviste accademiche, infuria il dibattito. Nel 1939, su Economic History Review, rivista abituata ai toni felpati, Frederick Brown si schiera apertamente dalla parte di Bowley, definendolo “grande intellettuale” e “statistico serio”, e bollando Kuczynski come un “manipolatore” – il che, anche qui, è esagerato.21 Nel medesimo anno, lo stesso Keynes si schiera nettamente a favore degli economisti borghesi, definendo la stabilità della divisione capitale-lavoro “la costante meglio determinata dell’intera scienza economica”. Anche se l’affermazione è quantomeno frettolosa, poiché Keynes si fonda essenzialmente sui pochi dati riguardanti l’industria manifatturiera britannica negli anni venti e trenta, il che non basta a stabilire una costante universale.22

Nei libri di testo del periodo 1950-70, e potremmo dire fino agli anni ottanta e novanta del Novecento, la tesi di una completa stabilità della divisione capitale-lavoro è generalmente presentata come una certezza, senza però precisare con il dovuto rigore il periodo a cui viene applicata la suddetta legge. Perlopiù ci si limita a prendere in esame alcuni dati relativi all’inizio degli anni cinquanta e sessanta, senza confrontarli con quelli del periodo tra le due guerre o dell’inizio del XX secolo, e ancor meno con quelli dei secoli XVIII e XIX. A partire dal periodo 1990-2000 tuttavia numerosi studi aggiornano i dati e prendono atto della forte crescita, dopo gli anni settanta e ottanta, della quota di profitti e di capitale nella composizione del reddito nazionale dei paesi ricchi – e contestualmente del calo della quota destinata ai salari e al lavoro. Viene pertanto messa in discussione la tesi della stabilità universale, e nei primi anni del XXI secolo parecchi rapporti ufficiali pubblicati dall’OCSE e dal FMI lanciano l’allarme sul fenomeno in corso (a conferma che il problema si sta facendo serio).23

La novità del lavoro proposto qui consiste nel fatto che, a mia conoscenza, si tratta del primo tentativo di inquadrare in un contesto storico più ampio il tema della divisione capitale-lavoro e della crescita recente della quota di capitale, ponendo l’accento sullo sviluppo del rapporto capitale/reddito dal XVIII secolo a oggi. La disamina che qui propongo ha certamente dei limiti – se non altro per le imprecisioni delle fonti storiche disponibili –, ma aiuta, a mio parere, a individuare meglio i problemi e a rinnovare lo studio del tema.

Il capitale nel XXI secolo
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