Al di là delle “due Cambridge”
Va comunque sottolineato che i bilanci nazionali e i vari materiali statistici disponibili alla fine del XIX secolo e all’inizio del XX sarebbero stati del tutto insufficienti per studiare correttamente la dinamica del rapporto capitale/reddito. In particolare, le stime dello stock di capitale erano molto più numerose di quelle del reddito nazionale e del prodotto interno. A metà del XX secolo, dopo gli eventi drammatici del periodo 1914-45, si è poi prodotta una situazione rovesciata. Il che spiega almeno in parte perché il problema dell’accumulazione del capitale e di una possibile soluzione di equilibrio al processo dinamico in corso abbia a lungo continuato a suscitare controversie, e spesso molta confusione, come è testimoniato dalla cosiddetta controversia delle “due Cambridge”, che ha avuto luogo negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso.
Ricordiamone brevemente i termini. Quando la formula β = s/g è stata introdotta apertamente e per la prima volta dagli economisti Harrod e Domar, alla fine degli anni trenta e durante gli anni quaranta, era normale scrivere e leggere la formula nel senso inverso, cioè g = s/β. In particolare, Harrod, nel 1939, ritiene che il rapporto capitale/reddito β sia rigorosamente fisso e imposto dalle tecnologie disponibili (come nel caso di una funzione di produzione a coefficienti fissi, senza alcuna sostituzione possibile tra lavoro e capitale), per cui il tasso di crescita sarebbe interamente determinato dal tasso di risparmio. Se il tasso di risparmio è del 10%, e la tecnologia impone un rapporto capitale/reddito pari a cinque (occorrono esattamente cinque unità di capitale per produrre un’unità di prodotto, né più né meno), il tasso di crescita della capacità produttiva dell’economia sarà del 2% annuo. Ma siccome il tasso di crescita deve essere pari al tasso di crescita della popolazione (e della produttività, nozione non ancora ben definita all’epoca), si arriva alla conclusione che la crescita è un processo intrinsecamente instabile, “sul filo del rasoio”. C’è sempre o troppo capitale o non abbastanza, il che può perciò generare potenziali eccedenze e bolle speculative, oppure disoccupazione, o tutte e due le cose insieme, a seconda dei settori e degli anni.
Non tutto è sbagliato nell’intuizione di Harrod, il quale scrive nel pieno della crisi degli anni trenta, ed è chiaramente e profondamente influenzato dalla fortissima instabilità macroeconomica dell’epoca. Di fatto, il meccanismo che descrive aiuta non poco a spiegare perché il processo di crescita sia sempre così tanto volatile: la regolazione, nell’insieme di un paese, tra le scelte di risparmio e di investimento, in genere compiute da persone diverse e per ragioni diverse, è strutturalmente complesso e caotico, poiché è molto difficile far variare a breve termine l’intensità capitalistica e l’organizzazione della produzione.35 Resta il fatto che il rapporto capitale/reddito è piuttosto flessibile sul lungo termine, come dimostrano senza ambiguità le fortissime variazioni storiche che abbiamo analizzato, e che sembrano altresì indicare, sul lungo periodo, un’elasticità di sostituzione tra lavoro e capitale superiore a uno.
Nel 1948 Domar sviluppa, rispetto a Harrod, una visione più ottimista e più flessibile della legge g = s/β, insistendo sul fatto che il tasso di risparmio e il rapporto capitale/reddito possano in qualche misura regolarsi. Ma è nel 1956, in particolare, che Solow introduce la funzione di produzione a fattori sostituibili, in grado di rovesciare la formula e di scriverla secondo il modello poi in uso β = s/g: a lungo termine, il rapporto capitale/reddito si rimodula sul tasso di risparmio e sul tasso di crescita strutturale dell’economia, e non viceversa. Negli anni cinquanta e sessanta, in ogni caso, le controversie continuano, dividendo gli economisti perlopiù operanti nella Cambridge del Massachusetts (in prima fila Solow e Samuelson, i quali difendono la funzione di produzione a fattori sostituibili) e gli economisti perlopiù operanti nella Cambridge del Regno Unito (per esempio Robinson, Kaldor e Pasinetti), i quali – a volte non senza una certa confusione – leggono nel modello di Solow la convinzione che la crescita sia sempre perfettamente equilibrata e che le fluttuazioni keynesiane di breve termine non vadano considerate. Solo a partire dagli anni settanta e ottanta s’impone definitivamente il modello di crescita di Solow, il cosiddetto modello “neoclassico”.
Se riconsideriamo il dibattito nell’ottica storica di cui oggi godiamo, appare chiaro che la controversia, che ebbe a tratti come sfondo uno scenario postcoloniale piuttosto marcato (gli economisti americani che cercavano di emanciparsi dalla tutela storica degli economisti britannici – padroni della professione dai tempi di Adam Smith –, e i britannici che cercavano di difendere la memoria a loro avviso tradita di Lord Keynes), ha contribuito più a confondere che a chiarire il tema economico di fondo. Nulla poteva davvero giustificare i sospetti britannici. Solow e Samuelson erano assolutamente convinti sia dell’instabilità a breve termine del processo di crescita sia della necessità di perseguire politiche keynesiane di stabilizzazione macroeconomica, e vedevano la legge β = s/g soltanto come una legge a lungo termine. Gli economisti americani, alcuni dei quali erano nati in Europa (come Modigliani), tendevano tuttavia a esagerare la portata della loro scoperta a proposito del “sentiero di crescita equilibrata”.36 La legge β = s/g descrive certo un cammino di crescita in cui tutte le grandezze macroeconomiche – stock di capitale e flusso di reddito e di produzione – progrediscono, a lungo termine, allo stesso ritmo. Ma, al di là della questione della volatilità a breve termine, tale crescita equilibrata non garantisce alcuna particolare armonia a livello di distribuzione delle ricchezze, e soprattutto non implica in alcun modo la scomparsa, e nemmeno la diminuzione, della disuguaglianza circa la proprietà da capitale. Inoltre, contrariamente a un’idea diffusa fino a tempi recenti, la legge β = s/g non evita affatto variazioni anche forti, nel tempo e tra paese e paese, del rapporto capitale/reddito. Al contrario, a me pare che la virulenza – e il carattere a volte un po’ sterile – della controversia delle due Cambridge si spieghi in parte con il fatto che gli uni e gli altri non disponevano di dati storici soddisfacenti che permettessero loro di precisare bene i termini del dibattito. Fa impressione vedere fino a che punto i partecipanti alla controversia abbiano fatto così poco ricorso alle stime del capitale nazionale effettuate precedentemente alla prima guerra mondiale, stime che evidentemente parevano loro incompatibili con la realtà degli anni cinquanta e sessanta. Le guerre hanno creato una discontinuità talmente forte nell’analisi concettuale e nel quadro statistico da impedire per un certo tempo agli economisti, soprattutto europei, di coltivare una prospettiva di lungo termine.